Il processo di espansione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è iniziato dal versante sociale, contrassegnato dall’obiettivo di spostare nella dimensione digitale buona parte delle funzioni che famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni hanno sempre svolto con modalità tradizionali (off line); una tale finalità – che in Europa rimonta alla “Strategia di Lisbona” – viene rappresentata con un modello socioeconomico con cui studiosi e policy maker descrivono l’integrazione delle Ict nei settori pubblico e privato alla stregua, esaltandone il carattere general purpose e le capacità di trattamento (computing) e di trasporto delle informazioni e delle conoscenze.
Questo processo si sta svolgendo con tutti i suoi profili di complessità legati, in particolare, all’avvento del web 2.0 – fenomeno che ha innescato un’incontrollabile circolazione di contenuti – ed ai motori di ricerca che facilitano il loro reperimento. Sappiamo anche come tale complessità abbia offerto il fianco alle ben note questioni di carattere regolamentare riconducibili all’individuazione, tutt’altro che scontata, delle figure a cui attribuire le responsabilità dei comportamenti in rete; questioni che introducono condizioni di incertezza per i consumatori concernenti i livelli di servizio, la protezione dei dati personali, la tutela dei minori che utilizzano Internet, prospettando pertanto un vera e propria crisi della regolamentazione.
Peraltro, va anche osservato che il modello socioeconomico appena descritto si caratterizza per la sua predisposizione a una regolazione «tecnica» o – per dirla con le parole di Lawrence Lessig – al regime del code, in ragione dello strato delle Ict da cui dipende in larga parte il suo funzionamento. Sotto questo profilo, il diritto si è ben presto orientato verso un approccio law and technologies, incoraggiando l’adozione di misure software progettate in modo da porre vincoli e impedire comportamenti contrari alle norme.
Oltre l’internet of humans – Da qualche tempo, poi, le traiettorie evolutive delle Ict puntano a una compenetrazione anche tra gli elementi “non cognitivi” dell’ambiente che, in tale prospettiva, acquisirebbero un’intelligenza artificiale, rappresentata dalla capacità di codificare in forma digitale, con l’ausilio del software, la realtà circostante (luoghi, accadimenti, comportamenti) – e dunque, di tradurla in informazioni – e di scambiare, attraverso la rete, i contenuti informativi che riassumono tale realtà. Le tecnologie Radio frequency identification (Rfid) ovvero le Global positioning system (Gps) o, ancora, le Wireless fidelity (Wi-fi) sono esempi emblematici di Ict la cui integrazione nell’ambiente, in chiave everythings, implica la produzione di notevoli quantità di contenuti informativi.
Su quest’ultimo punto, la letteratura tecnica – ma anche la politica europea – non mancano di esaltare le opportunità di sfruttamento per la ricerca, la crescita economica sostenibile, la prevenzione di fenomeni naturali avversi, la qualità della vita. A tal riguardo, va altresì sottolineato come una parte della letteratura, utilizzando un’accezione allargata, tenda a descrivere i sistemi di Ict alla stregua di “infrastrutture cognitive” le cui funzioni denotano un’intelligenza (invero) programmata che si integra con le capacità umane (immaginazione, creatività, correlazione), in tal modo dando forma a processi cognitivi combinati.
L’evoluzione che va delineandosi descrive pertanto la prospettiva di ambienti «intelligenti» – che gli addetti ai lavori sono soliti indicare con il termine smart – aventi una struttura reticolare i cui ‘nodi’ sono rappresentati da sistemi (viventi e non) che producono, scambiano e riutilizzano risorse informative e conoscitive. Il modello smart – che, per il vero, era già stato preconizzato da Mark Weiser nel 1988 attraverso il paradigma dell’elaborazione pervasiva (ubiquitous computing), integrata con l’ambiente – va dunque oltre la concezione di un impiego delle tecnologie che sia esclusivo dell’uomo (internet of human) prospettando il definirsi di sistemi «cognitivi» allargati a macchine, strumenti, beni di consumo durevoli (elettrodomestici), impianti, capaci di produrre e di processare anche autonomamente informazioni e conoscenze.
Sotto quest’ultimo aspetto, va osservato come, in talune circostanze, la sostituzione dell’operatività umana con l’intelligenza di determinati elementi dell’ambiente appaia opportuna, ad esempio sotto il profilo economico con l’eliminazione di costi legati a una costante presenza dell’uomo. Le caratteristiche di networking e di pervasività dei sistemi cognitivi testé tratteggiati lasciano intuire una tendenza che, con ogni probabilità, si collega al fenomeno della globalizzazione e che, per questo, seguendo la teoria evoluzionistica di Darwin-Malthus, va considerata alla stregua di una strategia di adattamento ai processi di unificazione economica, culturale, geopolitica. In questo quadro, il trattamento delle informazioni e delle conoscenze riveste una funzione essenziale, descrivendo un processo produttivo che si svolge nei nodi della rete e il cui output è rappresentato da nuova conoscenza.
Al riguardo, sappiamo come gli investimenti dell’epoca post-industriale (e post-fordista) si siano spostati sulle risorse cognitive da cui si genera l’innovazione, in tal modo modificando l’originaria impronta industriale del capitalismo; una dinamica, questa, che la letteratura sull’economia della conoscenza ha classificato come “capitalismo cognitivo” ovvero, esaltando il fattore relazionale, “capitalismo delle reti”.
Reti cognitive e prospettive di nuovi equilibri – Il paradigma delle realtà intelligenti riposa dunque su esigenze di networking e di data computing che originano dalla pressione di fattori legati alla globalizzazione e dalla consapevolezza che il sistema – e dunque la rete – rappresenta un’entità cognitiva superiore che, più delle sue parti costituenti, è capace di affrontare la sua complessità. Al contempo, lo stesso paradigma ripropone su un piano decisamente più impegnativo la questione del bilanciamento con quegli interessi che richiedono una regolamentazione del trattamento e della circolazione dei contenuti informativi e conoscitivi.
Sotto questo profilo, va rilevato come le reti cognitive estese – che implicano un’ampia partecipazione sia di imprese dell’industria delle Ict (internet service provider, operatori di telecomunicazioni, produttori di software) sia dei settori che si avvalgono delle Ict (public utilities, infrastrutture critiche, assicurazioni, enti locali) – abbiano una naturale propensione alla propagazione dei contenuti digitali e dunque a superare le barriere della proprietà sulla conoscenza. Non va dunque trascurata l’ipotesi che una simile strutturazione dell’ambiente, nel futuro prossimo, possa spostare l’ago della bilancia a favore della libera circolazione dei contenuti, in tal modo prospettando nuovi equilibri con i regimi che, per tutelare altri interessi, limitano tale circolazione.