“Dopo aver aspettato per due anni una legge europea, dal 1 gennaio 2017 immaginiamo una digital tax che vada a colpire con meccanismi diversi per far pagare tasse nei luoghi in cui sono fatte transazioni ed accordi per i grandi gruppi economici che operano su internet come Google e Apple“. Questo annuncio del premier Matteo Renzi è datato 15 settembre e, dopo mesi di silenzi, torna a essere rievocato dopo la sanzione della Commissione Ue al duo Apple–Irlanda. Bruxelles aveva allora ribadito che “iniziative dei singoli stati sulla tassazione delle ‘digital companies’ possono aggravare la frammentazione del mercato digitale europeo”, chiedendo sostanzialmente al Governo italiano di non andare da solo.
La decisione di Bruxelles ha infatti rianimato il dibattito sulla necessità di ripensare la tassazione, soprattutto nei confronti di multinazionali e web company. In Italia gli esponenti politici a favore di provvedimenti ad hoc in tal senso non mancano, a partire dal senatore di Scelta Civica Stefano Quintarelli che ad aprile dello scorso anno ha presentato una sua proposta. Basata su un principio chiaro: è necessario “associare l’imposizione fiscale ai territori nei quali viene generato il valore, introdurre delle misure transitorie legate al monitoraggio dei flussi informativi raccolti localmente e soprattutto combattere il profit shifting”. Per il senatore è quindi necessaria la creazione di meccanismi che consentano di individuare l’effettiva presenza produttiva e commerciale di un’azienda sul territorio. Il grado elevatissimo di dematerializzazione dell’industria online, fa notare Quintarelli nel testo fermo in Commissione da ottobre 2015, “ha reso estremamente più semplice per una società evitare di configurarsi come una presenza tassabile – attraverso una stabile organizzazione – nel territorio dello Stato presso il cui mercato è attiva”. Questa caratteristiche, aggiunge ricordando alcune rilevazioni dell’Ocse, “solleva una seconda problematica, che riguarda la possibilità per le imprese del settore digitale di ridurre e di suddividere le funzioni, gli asset e i rischi presso il territorio di più Stati al fine di diminuire il reddito ivi prodotto”. Il termine web tax non è però mai piaciuto a Quintarelli: “appare fuorviante, meglio sarebbe parlare di meccanismo antielusione”. Il riferimento della proposta non è infatti a una nuova tassa ma a un insieme di misure pensate per ridurre il fenomeno del profit-shifting e dell’elusione fiscale nell’economia digitale.
Chi invece una web tax chiamata così l’ha proposta nel 2013 è il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia. “In Italia la base imponibile erosa supera i 30 miliardi e avere la certezza almeno del pagamento delle imposte indirette avrebbe un impatto redistributivo molto serio in ogni paese” e con un meccanismo a regime garantirebbe fra i 5 e i 6 miliardi di maggiori entrate fiscali. Invece, ci sono “solo silenzi, salvo poi l’eccitazione collettiva per le multe” che però secondo il deputato “come le inevitabili inchieste fiscali delle principali amministrazioni finanziarie dei grandi paesi europei (quelle italiane su Amazon e Apple, quelle francesi, spagnole e tedesche sulle altre Ott), dimostrano lo scarso coraggio dei vertici politici europei e dei grandi paesi in questi ultimi 5 anni”.
Dopo la sanzione al colosso di Cupertino “ci si augura che il Governo rompa gli indugi ed esiga il pagamento delle imposte evase in Italia non solo da Apple ma anche da Google e da altri colossi del web”, commenta Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria di palazzo Madama. “Se Palazzo Chigi avesse accolto l’emendamento sulla web tax che avevo proposto al ddl Concorrenza – prosegue Mucchetti – oggi il governo sarebbe più forte”. Il senatore si è detto pronto a presentare, alla riapertura del Senato, un ddl sulla web tax vista anche la Legge di stabilità che bussa alle porte.
Tra i pionieri di un ripensamento del fisco anti-abuso delle multinazionali c’è sempre stato anche il sottosegretario all’Economia e segretario di Scelta Civica, Enrico Zanetti, che dopo il pronunciamento di Bruxelles ha rilanciato l’idea di una norma antiabuso finalizzata a far pagare tutti uguale per i profitti che conseguono in Italia. “Le conclusioni cui perviene l’Antitrust UE su Apple dimostrano che una norma antielusiva come quella che avevamo proposto noi di Scelta Civica nel 2015 sui redditi online realizzati in Italia da imprese con residenza estera non è affatto incompatibile con il diritto comunitario”. Anzi, aggiunge il deputato – “ne rappresenterebbe una esplicitazione più che opportuna sul piano operativo“. L’augurio di Zanetti è che il verdetto europeo su Apple “faccia definitivamente cadere alcune resistenze e perplessità tecniche che tuttora affiorano nei tavoli di lavoro, nonostante l’impegno politico all’introduzione di queste norme a partire dal 2017 sia stato preso a suo tempo in modo inequivoco dal governo”.
Le proposte insomma non mancano. Resta da vedere se Renzi terrà fede all’impegno preso con scadenza gennaio 2017, agendo a prescindere dalle mosse dell’Unione Europea sul tema fisco e multinazionali, oppure preferirà aspettare i colleghi europei per sedersi a tavolino e studiare una soluzione congiunta.