L’indutria globale dei chip è in buona salute, trainata dalla domanda del cloud computing e quindi dei grandi fornitori americani – Amazon, Microsoft e Google – che continuano a espandere i loro data center. Le vendite globali di semiconduttori sono aumentate l’anno scorso del 6,5% , grazie alla ripresa dell’ultimo trimestre del 2020 che ha bilanciato le perdite dei mesi del lockdown (marzo-aprile). Il valore totale del mercato ammonta a 439 miliardi di dollari.
I dati sono stati diffusi dalla Semiconductor industry association (Sia), associazione di settore che rappresenta la maggior parte dei chipmaker americani e molti produttori internazionali.
Europa, vendite a -6%
I chipmaker americani hanno venduto semiconduttori per circa 208 miliardi di dollari nel 2020, pari al 47% del totale. Le aziende statunitensi hanno a loro volta acquistato chip per 94,15 miliardi di dollari, un incremento di quasi il 20% rispetto al 2019.
Gli Usa vogliono più manufacturing
Tuttavia, mentre le aziende Usa rappresentano quasi la metà delle vendite di semiconduttori, la capacità produttiva è in Asia. le fabbriche americane sfornano solo il 12% dei chip prodotti nel 2020, un crollo rispetto al 37% del 1990. Adesso la maggior parte delle aziende dei chip Usa ha scelto di progettare in casa ma di affidare la produzione a partner all’estero, quasi sempre in Asia.
La Sia sottolinea che nei prossimi dieci anni si prevede una crescita del 10% della produzione di chip e gli Stati Uniti vogliono allargare la propria presenza nel manufacturing.
Anche per questo l’ex amministrazione Trump ha approvato l’anno scorso una legge che offre incentivi alle fabbriche di chip con sede negli Stati Uniti. Non devono essere necessariamente aziende americane – per esempio Intel o GlobalFoundries – ma anche straniere – come Samsung o Taiwan Semiconductor Manufacturing. Il requisito è però che la fabbrica sia in territorio Usa.
Samsung ha già annunciato la costruzione di una nuova fabbrica americana, in Texas, che produrrà circuiti logici a 3 nm probabilmente già dal 2022. Il colosso sud-coreano punta a proporsi come contractor per Microsoft, Amazon e Google che vogliono disegnarsi i processori in autonomia.
La trade war dei chip
I chip sono diventati un cruciale campo di battaglia nella trade war Usa-Cina. Gli Stati Uniti di Trump, con i tanti veti all’export di tecnologie americane verso le aziende cinesi, hanno tagliato le forniture per i concorrenti del colosso asiatico. Pechino ha risposto mettendo in campo risorse per oltre 160 miliardi di dollari per creare un’industria nazionale dei semiconduttori e sostenere i propri campioni tecnologici, come Huawei.
Proprio Huawei si è vista costretta a cedere il brand degli smartphone Honor (fascia medio-bassa) per le difficoltà di reperimento di chip. Il vendor cinese ha invece escluso la vendita del marchio Mate di fascia alta. Ma intanto, nel corso del 2020, Huawei ha visto ribaltarsi il proprio posizionamento tra i fornitori di smartphone, come rilevato da Counterpoint Research. Le sanzioni Usa hanno impattato drammaticamente sulle vendite dell’azienda cinese: nel quarto trimestre del 2020, in un mercato globalmente in ripresa, il vendor di Shenzhen ha registrato una flessione anno su anno del 41% che ha fatto crollare il suo market share all’8%. Ciò posiziona Huawei sesta nella classifica dei maggiori produttori di smartphone.