Il Nobel Phelps: “Banche dell’innovazione per uscire dall’impasse”

Quando nei Paesi ad alto reddito vediamo emergere noia, scarsità di impiego e disaffezione nei posti di lavoro, la spiegazione sta nella mancanza di innovazione, sottolinea l’economista statunitense. L’Italia primo candidato ad adottare processi di cambiamento

Pubblicato il 07 Feb 2011

“Guardi, sono trent’anni che vengo in visita in Italia, al
punto che mi sento vicino al popolo italiano. E nonostante quel che
a volte si dice, credo proprio che l’Italia sia fortunata ad
avere la cultura necessaria per determinare un rinascimento della
creatività e la realizzazione di nuove avventure nell’arena
economica. Tanto più necessarie in tempi di crisi generalizzata
come questi, dove la rinascita dello spirito di intrapresa e il
rinnovamento delle istituzioni economiche è indispensabile se si
vogliono sviluppare la prosperità e la crescita personale dei
cittadini. Sono però necessari il ritorno allo spirito
dell’innovazione e la sua realizzazione».

Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia ha ribadito nel
corso del suo ennesimo viaggio in Italia, stavolta per una lectio
Magistralis alla Camera dei Deputati, la sua fede
nell’innovazione. Per promuovere la quale si è fatto paladino di
un’idea, la banca dell’innovazione che, concepita durante
l’incontro a Parigi nel gennaio 2009 fra Sarkozy e Blair, ha
fatto strada a tal punto che un disegno di legge per introdurla ha
visto la luce proprio questa estate al Senato americano.
Anche se, a dire il vero, oltre a convinte adesioni l’idea di
Phelps non ha mancato di incontrare scetticismo e freddezza, in
particolare per la sua proposta che debba essere lo Stato il
finanziatore fondamentale e garante di ultima istanza della banca
dell’innovazione. Dubbi emersi anche durante l’ incontro romano
dove non è mancato chi, assieme ad altre critiche, gli ha fatto
osservare che istituti finanziari pubblici volti all’innovazione
non sono sconosciuti nel passato italiano, con risultati non
particolarmente confortanti, almeno nella maggioranza dei casi.

La convincono le obiezioni che ha ascoltato?
Sinceramente no. Anche perché la banca, o meglio i sistema di
banche dedicate all’innovazione che propongo, dovrebbero sì
avere alle spalle finanziamenti e garanzie pubbliche, ma agire come
soggetto privato sul mercato dei capitali per attrarre fondi da
investire in imprese che innovano, start-up incluse. Si tratta,
ovviamente, di investimenti che incorporano una dose di rischio
maggiore e che non sono molto interessanti per il mercato dei
capitali che conosciamo oggi. Il supporto statale renderebbe meno
onerosi i costi di approvvigionamento del denaro consentendo di
prestare e di investire nelle imprese innovative a tassi
interessanti. Tutto il contrario, dunque, dall’approccio
statalista come lo avete sperimentato in Italia. Tanto più che nel
mio schema è previsto un mix di investimento che prevede una
partecipazione importante del settore finanziario privato.

Ma da dove viene l’innovazione?
Dalla gente comune che vuole fare business, non da disegni
pubblici. Per questo penso che sia importante che in ogni Paese i
governi contribuiscano a creare un corpo di banche dedicate a
finanziare o a investire in business innovativi, non a stabilire
dove deve andare l’innovazione. Anche per questo non mi convince
la proposta Obama di ricreare l’esperienza della Nasa, magari
investendo in progetti sponsorizzati dal governo su tecnologie
verdi, carburanti alternativi, ricerca farmaceutica. Vorrei
piuttosto ricordare il ruolo che fra 1880 e 1890 Deutsche Bank ha
svolto in Germania per lo sviluppo delle nuove industrie del
settore elettrico. Non ci si rende abbastanza conto che gran parte
del dinamismo economico deriva dalle inclinazioni innovative di
gente normale che ambisce a fare carriera nel settore
imprenditoriale.

Ma che cosa è l’innovazione?
È l’adozione significativa e massiccia di nuove pratiche nella
società o in alcune comunità. Non è mai l’invenzione di
qualcosa che fallisce quando si tratta di adottarla. E una “buona
economia” ha molto a che fare con la creazione e l’applicazione
di nuove idee. Di conseguenza, nei Paesi dove non vi sono
istituzioni capaci di rendere possibile ed incoraggiare
l’innovazione non vi può essere buona economia.

Ma dove trovare i fondi pubblici in un momento di crisi dei
bilanci statali come questo?

Bisogna fare delle scelte, ma le risorse vi sono. Ad esempio,
proprio in questo viaggio ho appreso che in Italia ci sono ingenti
fondi disponibili per lo sviluppo, in particolare i finanziamenti
europei. Ho anche sentito dire che l’Italia è troppo piccola per
potere veramente innovare, che non ha le dimensioni sufficienti sia
economiche che del mercato dei capitali. Ma il Canada è troppo
piccolo per dare vita al Blackberry? O l’Inghilterra è più
grande dell’Italia? C’è una ragione di fondo per cui i governi
dovrebbero supportare l’innovazione: senza una “buona
economia” i cittadini non possono avere una prospettiva di una
“buona vita”. Per averla le persone hanno bisogno di essere
stimolate da nuovi sviluppi, impegnate da nuovi problemi,
ingaggiate a confrontarsi con nuove sfide così da trovare crescita
personale in questi processi, da avere la possibilità di fare la
differenza, da raggiungere qualcosa. Nelle ultime settimane siamo
testimoni di grida simili che emergono dai Paesi arabi.

Ma è così sicuro che “l’umana soddisfazione e senso di
pienezza”, per usare sue parole, siano così determinanti per
l’innovazione?

Negli anni Novanta il Canada aveva il rank più alto nella
relazione fra occupazione e soddisfazione nel lavoro nel G7,
seguito da Usa, Gran Bretagna, Giappone. Francia e Germania stavano
in fondo, l’Italia a metà. Negli anni Duemila l’Italia è
precipitata in fondo. La mia tesi è che quando nei Paesi ad alto
reddito vediamo emergere noia, scarsità di impiego e disaffezione
nei posti di lavoro la spiegazione sta generalmente nella mancanza
di innovazione. Da questo punto di vista, l’Italia apparirebbe il
primo candidato a stimolare l’innovazione. Come gli Stati Uniti,
del resto, dove la job satisfaction è precipitata con la crescita
della competizione internazionale e il declino
dell’innovazione.

In Italia i ragazzi stanno a carico dei genitori sino a
trent’anni e oltre.

È un problema. Credo che i giovani italiani siano sotto una forte
pressione tra la volontà di rompere e di uscire da certe
situazioni e la possibilità di farlo. È una situazione che
andrebbe aggredita anche se non ho in mano la ricetta. Quel che so
è che, soprattutto in periodi di crisi, bisogna riuscire a
prendere misure decise, aggressive.

Si è polemizzato se l’Italia vada “rifatta” o
“ricostruita”.

Rifatta. Non mi pare che ci sia tanta leadership innovativa
nell’Italia recente.

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