L’agoritmo utilizzato da
Deliveroo per smistare le consegne è “discriminatorio”, dal momento che penalizza i
rider che non si rendono disponibili alle consegne senza tenere conto delle loro motivazioni, e senza distinguere quindi se a impedire ai lavoratori di rendersi disponibili per le consegne siano problemi di salute o la scelta di scioperare, o di un motivo meno importante. A stabilirlo pronunciandosi in merito al ricorso presentato dai sindacati
Nidil Cgil,
Filcams Cgil e
Filt Cgil è stata la sezione Lavoro del tribunale di Bologna in una sentenza emessa il 31 dicembre, mentre l’azienda replica affermando che l’algoritmo Frank non viene più utilizzato da tempo. Il tribunale ha condannato Deliveroo – che ora valuta se ricorrere in appello – a un risarcimento di 50mila euro ai ricorrenti e alla pubblicazione del provvedimento del tribunale sul proprio sito internet e all’interno della sezione “Faq”.
Nel mirino della sentenza è finito il “ranking reputazionale” utilizzato dalla piattaforma, che era stato regolarmente in uso fino a novembre, che “declassava” senza distinzioni i lavoratori che non si rendevano disponibili alle consegne. Di “Svolta epocale nella conquista dei diritti e delle libertà sindacali nel mondo digitale” parla Tania Sacchetti, segretaria confederale Cgil, secondo cui “Per la prima volta in Europa un giudice stabilisce che ‘Frank’ è cieco e pertanto indifferente alle esigenze dei rider che non sono macchine, ma lavoratrici e lavoratori con diritti”.
“Prendiamo atto della decisione del giudice che non condividiamo – commenta
Matteo Sarzana, general manager di
Deliveroo Italy – e che fa riferimento a un sistema di prenotazione delle sessioni dei
rider che non è più in uso. La correttezza del nostro vecchio sistema è confermata dal fatto che nel corso del giudizio non è emerso un singolo caso di oggettiva e reale discriminazione. La decisione si basa, esclusivamente, su una valutazione ipotetica e potenziale priva di riscontri concreti”.
“Questa tecnicamente non è una class action americana, ma in realtà lo è perché c’è una discriminazione collettiva in materia di lavoro – argomenta Carlo De Marchis, avvocato che insieme ai collgehi Matilde Bidetti e Sergio Vacirca ha curato il ricorso – Non c’è la figura di un rider specifico dietro la causa ed è per questo motivo che è ancora più dirompente, perché vale per tutti i rider. Avere buoni voti significava avere accesso preventivo all’assegnazione degli slot migliori per orari e zone da coprire. Prenotando la sessione ci si obbligava a geo-localizzarsi nella zona di competenza poco prima dell’inizio del turno e chi non lo faceva senza disdire con un giorno di anticipo scendeva nel ranking”.