L’Italia usa il cloud più della media europea, ma sull’industria 4.0 abbiamo ancora molta strada da fare. La colpa? Soprattutto della mancanza di skill digitali. Lo rileva il rapporto dell’Istituto per la Competitività (I-Com) presentato oggi a Roma e curato da Stefano da Empoli, presidente di I-Com, e Silvia Compagnucci, direttore dell’Area Digitale dell’istituto.
L’indice di adozione di servizi di cloud computing mediamente o altamente sofisticati si attesta al 20% delle imprese, contro una media Ue dell’11%. Ciò nonostante, rispetto alla quarta rivoluzione industriale, il ranking I-Com ci colloca al 20° posto principalmente a causa delle competenze digitali ancora limitate, che frenano il cambiamento. Lo studio del think tank europeo, con sede a Roma e a Bruxelles, si pone l’obiettivo di descrivere le opportunità, a livello nazionale ed europeo, legate alla diffusione dell’Internet of Things (IoT) nei settori manifatturiero, energetico e nel campo della salute e i benefici dovuti all’implementazione del 5G.
In particolare, l’I-Com ha elaborato un indice sul grado di preparazione degli Stati membri all’industria 4.0, tenendo conto di diverse variabili inerenti all’adozione delle tecnologie abilitanti, alle infrastrutture di Tlc e alle competenze digitali. I Paesi del Nord Europa, ovvero Svezia, Danimarca, Germania, Belgio, Finlandia e Paesi Bassi, si classificano ai primi sei posti della graduatoria Ue, presentando condizioni adeguate per poter scommettere sulla quarta rivoluzione industriale.
“L’Italia si trova in 20° posizione, a causa soprattutto della scarsa connettività e delle competenze digitali di gran lunga inferiori rispetto alla media europea – fa notare Stefano da Empoli, presidente di I-Com -. “Nonostante le nostre industrie mostrino una maturità per certi versi sorprendente nell’uso di alcune tecnologie abilitanti, come ad esempio i servizi di cloud, è evidente che se non si lavora sugli altri fronti le opportunità offerte dalla digitalizzazione della manifattura non potranno essere davvero colte. Ma se sul rapido sviluppo di infrastrutture di banda ultra larga siamo discretamente ottimisti, il vero elemento di preoccupazione sono le competenze digitali sulle quali senza uno shock positivo rischiamo di vanificare gli sforzi dell’intero sistema. Ci auguriamo che il Piano Nazionale Industria 4.0, che giudichiamo positivamente, possa determinare quel cambio di passo di cui abbiamo bisogno”.
Secondo gli analisti dell’Istituto per la Competitività, l’economia digitale contribuisce per l’8% al prodotto interno lordo delle economie del G-20. Tra i Paesi europei, solo l’Irlanda è in linea con questo tasso, tanto che l’economia digitale contribuisce per l’8,1% al Pil dell’isola. L’Italia si colloca al 24° posto, con un peso pari al 3,6%. Fanno peggio di noi solo Portogallo, Grecia, Lituania e Austria.
Sul versante della sanità digitale, il Paese più performante risulta la Danimarca, seguito da Finlandia, Paesi Bassi, Estonia e Svezia. Realtà che hanno in comune un alto grado di digitalizzazione negli studi medici e un elevato numero di pazienti che utilizzano Internet per cercare informazioni sulla salute o prenotare visite mediche. L’Italia si piazza al 18° posto, con un punteggio inferiore di circa il 70% rispetto alla prima classificata. Un risultato che, secondo I-Com, è dovuto soprattutto al ritardo con cui è stato sottoscritto il Patto per la Sanità Digitale.
La situazione italiana non è omogenea a livello regionale. Secondo un recent report dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgiD), il Fascicolo Sanitario Elettronico risulta operativo in solo sette regioni italiane (Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Sardegna e Puglia). In Campania, Sicilia e Calabria, invece, non è stato ancora realizzato e nelle restanti regioni è in corso di implementazione.