Non un’evoluzione ma un vero e proprio cambio di paradigma. È questo l’effetto che l’industria 4.0 avrà sul lavoro e sulla sua organizzazione. Le conseguenze sono molteplici e riguardano le mansioni, gli orari, i luoghi e le competenze del lavoratore. “Già con la terza rivoluzione industriale e l’ingresso in fabbrica dell’IT – spiega in un paper, Francesco Seghezzi, direttore di Adapt – si è assistito al fenomeno della riduzione dei ruoli propri dei blue collar, ossia quelli adibiti alla catena di montaggio fordista. Ma con l’arrivo dell’Internet of Things, la produzione non necessita più dell’apporto dell’operaio specializzato per operazioni meccaniche, ma per le attività di settaggio dei macchinari”. Attività, queste, centrali in un modello di produzione dove le macchine sono sempre più complesse e soggette ad errori, bug o altre tipologie di ostacolo alla produzione e per il quale sono necessarie raffinate competenze di Information technology.
“Allo stesso modo – spiega ancora Seghezzi – l’industria 4.0 cambia la logistica interna allo stabilimento che non viene più gestita dall’operaio ma da robot in grado di sollevare pesi maggiori. In questo quadro il ruolo del lavoratore è quello di impostare il sistema informatico che si occuperà automaticamente di gestire lo stoccaggio, sulla base di sensori e degli input che il ciclo produttivo fornisce”. È chiaro, dunque, che l’immagine del lavoro in fabbrica come quello proprio dell’operaio senza competenze non avrà più ragion d’essere.
“La conoscenza avanzata di sistemi IT, la capacità di analisi in tempo reale dei big data e il sapersi muovere tra sistemi cyber-fisici saranno la base per gli operai del futuro”, dice Seghezzi. Diventa dunque indispensabile conciliare competenze e lavoro: dalla scuola fino alla formazione continua, passando per l’università. Non a caso il Paese europeo i cui lo smart manufacturing si sta affermando più velocemente è la Germania, dove già esiste un forte raccordo tra scuola, unversità e impresa.
La centralità dell’innovazione all’interno di questo modello, inoltre, farà crescere notevolmente i budget in R&S: ricerca e fabbrica non potranno che andare di pari passo, cambiando notevolmente il paradigma del ricercatore come uomo di studio e dell’operaio come uomo di sapere pratico.
Altra rivoluzione riguarda gli orari e i luoghi del lavoro. Essendo la produzione gestita virtualmente , nulla impedisce al lavoratore di controllarla da remoto, tramite pc i tablet. “Questo non significa – puntualizza Seghezzi – immaginare una fabbrica senza lavoratori, completamente gestita dalle macchine. Ma è chiaro che l’operaio si interfaccerà sempre più con il tablet connesso alla rete aziendale piuttosto che alla macchina stessa”. Non è un caso che General Electrics abbia investito 1,5 miliardi di dollari per installare 10mila sensori nel suo stabilimento di Schenectdaty, tutti connessi alla rete aziendale, per telemonitorare l’andamento produttivo via iPad.
Ma l’Italia è in grado di rispondere ai cambiamenti che questo modello produttivo “iper-tecnologico” richiede? Per Vincenzo Moretti, sociologo della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, il nostro Paese deve fare un salto prima di tutto culturale. “Serve – spiega Moretti – vitalizzare l’idea che il lavoro, l’innovazione, la capacità di networking, lo sviluppo di qualità possono rappresentare le leve per innalzare la capacità di competere . La capacità di innovazione diventa sempre più un indicatore fondamentale per stabilire la capacità dei singoli paesi di creare lavoro e del sistema garantire la loro futura prosperità e questo rende semplicemente indispensabile che i leader economici, politici e della società civile cooperino per determinare condizioni più propizie all’innovazione”. L’Italia saprà vincere la sfida dello smart manufacturing solo se riesce a tenere insieme lavoro e innovazione. “E dunque se investe nella scuola, nella formazione, nella conoscenza – sottolinea il sociologo – Se si dota di una politica per l’innovazione e la ricerca scientifica. Se mette al centro del nuovo corso le città, i distretti, i territori. Se promuove la cultura d’impresa. Se incentiva e sostiene la transizione delle Pmi verso l’economia digitale. Se mette a valore il sapere e il saper fare delle persone, la conoscenza esplicita e tacita delle organizzazioni, la cultura e la storia delle proprie città e delle proprie comunità”.
Ma questo sarà possibile, appunto, solo con un cambio di paradigma culturale che deve investire industria, sindacato e classi dirigenti.