Un giorno mia nonna (toscana verace) dopo che avevo rovesciato per terra una splendida torta appena sfornata, mi disse “chi non fa non falla” e io, allora bambina, risposi: allora è meglio non fare niente così non si sbaglia mai!
Rise un po’ e fece davvero fatica a farmi capire l’understatement (io nata e vissuta in Liguria facevo fatica a seguire il suo humour), ma credo alla fine di avere fatto del suo insegnamento la mia bandiera: casco, sbaglio, imparo, mi rialzo, casco, sbaglio, imparo, mi rialzo, faccio sbaglio, imparo, mi rialzo, casco, sbaglio,…
Certo questo non evita le critiche soprattutto di chi, nascosto dietro una tastiera (il coraggio della critica frontale implica la voglia di costruire, ma molte persone si fermano alla pars destruens) brontola, fa illazioni, grida allo scandalo, dichiara la propria verginità e le terribili colpe altrui, mostra quanto evidenti siano gli errori o la mala fede altrui, dichiara che la persona X è al posto sbagliato o guadagna troppo o ha avuto appoggi da chissà chi…
E tutte le volte, anche quando la critica non è rivolta direttamente a me, mi sento in dovere di difendere l’accusato, forse perché per me il bicchiere è sempre mezzo pieno, forse perché non amo vedere la mala fede dietro le azioni delle persone, forse perché troppe volte ho visto che un’ipotetica mala fede era in realtà solo leggerezza o disattenzione.
Ma che cosa c’entra l’innovazione in tutto questo? C’entra, c’entra…
Sono profondamente convinta che tra i principali requisiti per innovare ci siano almeno questi tre:
1 – La capacità di accettare il diverso come valore. Perché dal diverso si impara, perché con il diverso si cresce e perché con l’omologazione si resta al palo, ci si impantana nella palude dei “simili”, ci si autocompiace guardandosi allo specchio o riflettendosi nei simili e non ci si scontra/incontra con il resto del mondo, non si apre la mente alla creatività, non si innova!
2 – La voglia e il coraggio di capire il ruolo delle tecnologie per amministrare e governare sia le imprese che le pubbliche amministrazioni; le tecnologie non sono certo un fine, ma un grande, grandissimo mezzo per raggiungere prima e meglio alcune mete. Non è necessario essere tecnologi, ma non si può (non si deve) più ignorare il fatto che le tecnologie pervadono la nostra vita e che un cosiddetto “nativo digitale” non si rende neppure conto di quante cose conosce e usa, cose che invece i suoi nonni (e a volte anche i suoi genitori) fanno fatica anche solo a immaginare.
3 – La voglia, la passione, la convinzione che solo adottando il 2.0 come metodo di vita, di amministrazione e di governo si potrà davvero innovare il paese.
Qualcuno dice “2.0 si nasce”, forse è vero, e, in effetti, sicuramente vi ricordate il vostro compagno di scuola che metteva la manina a protezione del compito in classe per impedirvi di copiare?
Beh, quello non era nato 2.0, certamente no, ma forse, nel tempo, con i nuovi strumenti di condivisione e di socializzazione, forse dico, se non è troppo narciso e troppo profondamente votato al primadonnismo, potrà, prima o poi, imparare a condividere, qualcosina, non fosse altro che per far sapere quanto è bravo e geniale!
Insomma gli Inno-viandanti hanno un fardello pesante, devono traghettare il mondo da un’era ad un’altra, devono sbagliare e imparare a rialzarsi dopo ogni caduta, devono riuscire a parlare la lingua di chi vive in altri “tempi”, devono sopportare le critiche di chi, in buona fede o meno, vuole sminuire il loro lavoro, ma se sono davvero innovatori non molleranno, non almeno fino a che potranno passare il testimone al prossimo innovatore, più giovane, con idee nuove, con più entusiasmo, con più passione e con il futuro davanti.