L’Italia è ancora molto lontana nell’uso di Internet, tanto da collocarsi al penultimo posto nell’Unione Europea; indietro anche nella sfida della trasformazione digitale, dove occupa il 19/o posto sui 28 Paesi Ue. E’ la fotografia scattata dal Rapporto Cotec (Cooperazione tecnologica) 2018 sull’innovazione tecnologica in Italia, Portogallo e Spagna, presentati oggi a Roma, presso il Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca (Miur).
I rapporti Cotec si basano su dati statistici di diversi organismi nazionali e internazionali, come Istat, Ocse, Commissione Europea, Banca Mondiale e World Economic Forum. Le statistiche mostrano nel 2016 un calo in Italia degli investimenti in ricerca e sviluppo, ridotti di 545,7 milioni di euro (-0,05% in rapporto al Pil) rispetto al 2015. Il calo riguarda anche il resto d’Europa, dove spiccano i 3.122 milioni in meno spesi dal Regno Unito nel 2016 rispetto al 2015 e dove solo Germania (+3.637 milioni) e Francia crescono in modo significativo. Una diminuzione generalizzata di circa lo 0,02%, se si considera la spesa in rapporto al Pil (il nostro Paese segna -0,05%). Ad aumentare è invece la quota di spesa in R&D finanziata dalle imprese.
In Europa nel 2015 era pari al 55,3%, con la variazione più rilevante che spetta all’Italia, dove si è passati dal 47,3% del 2014 al 50% del 2015. In Italia quintuplica il valore della raccolta di fondi per investimenti di Venture Capital e Private Equity, con un valore che passa dagli 1,313 miliardi del 2015 ai 6,230 miliardi del 2016.
“Sulla capacità di generare conoscenza e innovazione – ha rilevato il direttore generale della fondazione Cotec, Claudio Roveda – dall’analisi è emerso che il rapporto della spesa rispetto al Pil in Italia non solo è basso e ci pone in una posizione non significativa rispetto ai paesi europei, ma c’è stata anche una decrescita. E’ cresciuta però la percentuale della spesa in R&D delle aziende private, in parte come conseguenza della riduzione degli investimenti del settore pubblico. Abbiamo rilevato un andamento altalenante della raccolta di fondi di Venture Capital e private Equity”.
L’Italia resta indietro anche per numero di laureati nella fascia tra i 15 e i 64 anni: il 16,5% nel 2017, più di dieci punti percentuali al di sotto della media in Europa, dove solo la Romania fa peggio. Pochi anche i brevetti. L’Italia ne ha il numero più basso tra il 2011 e 2016, sia per il settore biotecnologie, pari a 337 contro gli oltre 13.000 degli Stati Uniti in cima alla classifica, che per quello dell’Ict e delle nanotecnologie: 305 e 25, rispettivamente, contro gli oltre 38.000 e i 760 degli Usa.
Delle 1.000 imprese europee più innovatrici nel 2016 solo 38 sono in Italia, 7 in meno del 2015, contro le 290 del Regno Unito in vetta alla classifica. Cresce, invece, tra il 2000 e il 2015 il numero di ricercatori per 1.000 lavoratori, pari a 4,93 nel 2015, numero basso tuttavia se confrontato ai quasi 14 della Finlandia che guida la classifica.
Il nostro Paese ottiene, però, il migliore risultato per numero di pubblicazioni scientifiche per 100 ricercatori: 87,5 nel 2015.
A proposito del capitale umano, ha proseguito Roveda, “si rileva una flessione significativa del numero di addetti alla R&D rispetto alla forza lavoro, dopo un periodo di crescita. E’ l’effetto della crisi che si fa sentire”.
Sul tema delle competenze, “che è anche la capacità di utilizzare l’innovazione siamo al penultimo posto in Europa per percentuale di laureati. Ma siamo allineati alla media Ue per quanto riguarda le lauree in discipline ingegneristiche e scientifiche”.
“In Italia manca ancora una strategia globale dedicata alle competenze digitali – ha spiegato – Ad esempio, secondo il Digital Economy and Society Index (Desi) 2018 di Eurostat, che rileva i progressi compiuti dagli stati membri Ue in termini di digitalizzazione, l’Italia è solo al 25° posto in Europa, prima di Belgio, Grecia e Romania, e ha una capacità umana di utilizzare l’innovazione digitale ancora bassa”.
La capacità di “brevettazione delle nostre imprese poi è bassa e limitata – ha osservato ancora Roveda – ed è una conseguenza della struttura industriale del Paese”. Dal Rapporto, secondo l’esperto, emerge “anche la bassa collaborazione tra imprese e università e istituti di ricerca”.