Krishna Bharat ai giornali ci è, in un certo senso, cresciuto in
mezzo, visto che a casa sua, in India, entravano quotidiani,
magazine rivali come Time e Newsweek, e si ascoltava la Bbc alla
radio. Non c’è da stupirsi che nel tempo libero, quel 20% di
tempo che a Mountain View concedono ai dipendenti per realizzare le
proprie idee, abbia inventato Google News, il servizio di raccolta
di notizie che mette paura agli editori di tutto il mondo. Sul
futuro della stampa e sui rapporti fra quella tradizionale, quella
online e la sua creatura, Bharat ha le idee chiare: idee che
parlano di un rapporto di collaborazione e non di concorrenza fra
Google e gli editori, di micropagamenti e di iPad.
Mr Bharat, sono passati otto anni dal lancio di Google
News, e siete, come non mai, sotto tiro da parte degli editori, che
vi vedono come dei concorrenti sleali.
Il problema è che c’è stato un cambio di prospettiva: per lungo
tempo, anche nel mondo di Internet, gli editori sono stati gli
unici a fornire notizie e questo ha dato loro l’esclusiva
nell’accesso ai lettori. Oggi non è più così, ma Google non
vuole di certo diventare una media company. Noi non siamo
concorrenti degli editori, quanto, piuttosto, dipendiamo da
loro.
In che senso?
I lettori sono ancora degli
editori. La fruizione delle notizie sul web è fatta di tre punti:
creare i contenuti, attrarre i visitatori e legarli al sito. Noi
possiamo aiutare le media company nelle seconde due voci, ma la
prima, che sta alla base, è ancora totalmente di loro pertinenza.
La nostra missione non è creare contenuti e quindi essere loro
concorrenti, quanto organizzare l’informazione mondiale. Google
è globale, i lettori sono globali: per noi, ogni notizia è un
potenziale scoop. Ma noi non sia gli editori, sono loro che
continuano ad esserlo. Per esempio, il nostro ranking delle notizie
dipende da loro: quella che i media decidono essere la storia del
giorno, è la storia del giorno anche per Google News. La cosa più
importante per noi è la fiducia degli utilizzatori e il fatto di
poter fornire loro tutti i tipi di notizie, le opinioni più
disparate, che cerchiamo di organizzare in maniera obiettiva. Per
argomento, ma anche privilegiando gli articoli più aggiornati,
quelli con più citazioni e quelli che sono stati prodotti più
vicino alla storia raccontata.
Eppure, in un momento in cui l’industria dei media, per
usare un eufemismo, non se la passa bene, siete additati come chi
“ruba” lettori e soprattutto contenuti.
Quando
l’attuale modello di pubblicazione delle notizie su Internet è
nato, una quindicina di anni fa, Google non esisteva nemmeno e
quella di proporre gratis i contenuti, per ottenere ricavi dalla
pubblicità, fu una scelta degli editori. Oggi, di fronte ad un
paradigma completamente cambiato, è normale che cerchino altre
strade.
Hanno avuto un seguito le minacce, avanzate da alcuni, di
non voler più apparire su Google News?
Per ora non mi
risulta di nessuno che abbia abbandonato Google News, per quanto
questo non sia difficile. Noi, piuttosto, cerchiamo forme di
collaborazione con gli editori, che possano permettere
all’industria dei media di monetizzare meglio i contenuti a loro
disposizione: un esempio è Newspass, e un altro, in via di
sperimentazione, è il progetto Serendipity, in cui una parte della
pagina del nostro servizio di ricerca delle notizie viene lasciata
agli editori, che possono usarla per proporre ai lettori alcuni
contenuti a loro scelta, cose che loro ritengano valga la pena di
far leggere: scoop, approfondimenti, esclusive, ed eventualmente
anche contenuti premium o dietro un paywall.
Alcuni giornali, come il Times di Rupert Murdoch in testa,
hanno deciso di far pagare un abbonamento per la fruizione del sito
Internet. È questa la strada che prenderà l’informazione online
nei prossimi anni? E in che modo questo cozza con la filosofia di
Google News?
Non è ancora emerso un modello chiaro per
il pagamento dei contenuti online, ma io sono convinto che, se si
mettono i propri contenuti dietro un paywall, il ruolo di Google
News sia ancora più importante, proprio perché, se sono a
pagamento, questi contenuti saranno più difficilmente reperibili
sulla rete, visto che saranno meno linkati. Un’altra questione è
quella del budget: abbonamenti rigidi potrebbero costringere i
lettori a scegliere una o due fonti, mentre devono avere la
possibilità di scegliere.
I micropagamenti potrebbe essere una
strada?
Sono un’opzione, ma hanno qualche problema:
dal punto di vista delle transazioni, visto il valore limitato di
una notizia, non sarebbe un metodo molto efficiente. In più, sono
convinto che sia necessario trovare un modello in cui il lettore
non percepisce come una spesa ogni articolo letto. La mia opinione
è che potrebbero emergere modelli cooperativi in grado di
permettere ai consumatori di spalmare senza troppe difficoltà il
proprio budget fra testate diverse.
Il modello “all free” sta finendo?
Sta più
che altro cambiando in un modello ibrido, in cui le notizie che
tutti hanno trovano ancora remunerazione soltanto nella
pubblicità, mentre scoop, approfondimenti, contenuti particolari
possono essere remunerati anche in maniera differente.
C’è un altro modello emerso ultimamente e legato all’iPad, che
molti hanno visto come un vero e proprio salvatore dei
giornali.
Quella strategia, secondo me, è un passo indietro verso un mondo
sconnesso. Nella pratica, notizie e libri sono due cose differenti:
le notizie sono qualcosa che avviene in ogni momento e il traffico
sui siti arriva, in maniera sempre maggiore, dalla ricerca e dai
social network. Tuttavia, l’iPad è un primo esempio di cosa
possa essere fatto con un tablet e di come questo possa cambiare la
fruizione dei contenuti editoriali. Sono molto ottimista per quanto
concerne i tablet, che ovviamente non sono un’esclusiva di Apple:
offrono possibilità di personalizzazione, soprattutto se i
contenuti, a differenza di quanto sta avvenendo in questo primo
momento, non saranno statici ma si evolveranno durante la giornata.
Tutto questo porterà a maggiori chance di monetizzazione.
Che tipo di evoluzione lei intende?
Mi pare
che per ora le versioni elettroniche dei giornali, sia online che
tramite apps, cerchino troppo di riprodurre il modello della carta
stampata, mentre la fruizione che viene fatta dai lettori è
totalmente diversa, con più del 50% del traffico che arriva dai
social media. Un esempio sono gli articoli su temi che si
sviluppano su un orizzonte temporale ampio: dovrebbero essere
inseriti assieme, in dossier di facile consultazione, piuttosto che
restare separati e rimandare all’home page.
Krishna Bharat, l’uomo che aggrega news
L’ingegnere capo di Google News: “Non siamo concorrenti degli editori: dipendiamo da loro”
Pubblicato il 20 Set 2010
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