Provocatore, istrionico e guastatore delle teorie più diffuse nel mondo delle HR, Beppe Carrella pare abbia colto nel segno con il saggio “Provocazioni manageriali” (Ed. Apogeo). Nella classifica di HR.com, la community più ampia in rete dedicata alla gestione delle risorse umane, il suo saggio è risultato nel 2013 il terzo titolo più letto in Usa.
Un italiano tra i guru delle HR, la sorprende?
Sì. L’approccio di questo saggio, per altro, a partire dal titolo, è in netta contraddizione con molte teorie prevalenti nel mondo delle risorse umane.
Che cosa contesta?
In primo luogo la semplificazione esagerata del rapporto umano e delle HR nelle aziende. A partire, per esempio, dalla “pornografia” del talento.
Cioè?
Guardando alle grandi imprese hi-tech, immaginando erroneamente come funzionano, si pensa che ci siano persone virtuose in grado di risolvere ogni cosa. Tutti cercano talenti. Questi, però, cambiano azienda ogni tre mesi. Perché le imprese non li trattengono? In realtà, si proiettano fabbisogni inesistenti su singole persone virtuose. Alle imprese, tuttavia, serve ben altro. Il genio della situazione va bene nello sport non nel mondo aziendale. Lo stesso si può dire di altri due temi: la sfrenata ricerca di positività e della creatività.
Non servono per fare innovazione?
Tutti sostengono che pensare positivo aiuti il cambiamento, ma è vero il contrario. Soltanto chi è insoddisfatto cerca di risolvere i problemi. Il rischio di una positività artificiale è la rassegnazione verso uno status quo. E lo stesso per la creatività: inserire un singolo creativo in “zone protette” non fa altro che scombinare i piani degli altri. Provoca solo danni. Talento, positività, creatività sono palliativi.
La medicina giusta qual è?
La fatica. Non sono le soluzioni preconfezionate a fare emergere il meglio. Servono reti di sostegno interne alle imprese affinché ciascuno segua percorsi sia aiutato a “esplodere” ed esprimere il miglior potenziale lavorativo.
Le tecnologie aiutano questo processo?
No, è l’ambiente di lavoro che conta. Si provi a rispondere a una semplice domanda: un programmatore Java di un’azienda italiana è più o meno bravo di un programmatore Java di Google? Dov’è la differenza?
Me lo dica lei, che frequenta ambienti d’oltreoceano.
La differenza è ciò che mette a disposizione l’azienda per esprimere quella capacità, non le competenze individuali. Sono certo che lo stesso programmatore Java rimesso a lavorare in un’azienda italiana non sarebbe altrettanto bravo. La tecnologia, in definitiva, da sola non fa la differenza. Se metto in mano i pennelli che usava Picasso a un pittore dilettante non ne faccio un Picasso, ma soltanto un pittore dilettante che usa i pennelli di Picasso.
Che cosa fare allora, puntare sulla costruzione di buoni gruppi con azioni di team building?
Per carità. Non basta mettersi insieme per lavorare bene. Il team building non si può costruire, è una proprietà del sistema. Dieci persone insieme devono trovare la loro soluzione, che non si può imporre a priori. Percorsi tibetani, stare in barca insieme: tutte cose ridicole. Nei campus delle grandi imprese hi-tech le cose funzionano diversamente: le persone si aggregano spontaneamente perché vanno d’accordo e creano liberamente gruppi di lavoro. È per questo che hanno successo.
Il suo libro insegna la disobbedienza. Perché è necessaria?
È sempre più importante imparare a superare le regole che non valgono più. Questa è vera etica, una predisposizione cioè verso la responsabilità e il cambiamento. Si può innovare soltanto fuori dalla “burocrazia”: in azienda ti insegnano però a fare ciò che non disturba e a non contravvenire alle regole. Google, Yahoo, Apple, per esempio, hanno deciso di non seguire le regole per progredire.
Come si impara a disobbedire?
Senza andare nella Silicon Valley, basterebbe leggere con attenzione buona letteratura, dalle Avventure di Pinocchio al Don Chisciotte, dove al primo posto c’è la disobbedienza e la volontà d’inseguire i sogni. L’obiettivo, tuttavia, non è decostruire o smontare, bensì creare e cambiare, cercando di lasciare più cose fatte per chi verrà dopo di te.
Un po’ come con Internet, dove, almeno nella filosofia dei primi anni, si puntava a condividere conoscenza…
La cultura dello sharing ha radici ben più profonde, per fortuna. A Trento c’è una cattedrale del ‘300 costruita per contenere 1.300 persone, ma la cosa curiosa è che al tempo in cui fu realizzata non c’erano tanti cristiani in quella zona geografica. Perché allora pensare un’opera bellissima oltre le esigenze reali? Per lasciare qualcosa agli altri! Perché potesse crescere un’idea. Ma non è sempre così. A chi voleva costruire l’Autostrada del Sole a tre corsie diedero del matto. Ora è chiaro quale fosse il disegno corretto.
Quali “autostrade tecnologiche” costruire oggi?
Servono infrastrutture di trasposto dei dati robuste, che permettano a chiunque di usarle e maggiore attenzione alle situazioni che oggi appaiono contraddittorie. Occorre esplodere queste singolarità e alcune paradossali incongruenze.
Per esempio?
Guardiamo ai Big Data. Sono analizzati con tecnologie e metodi vecchi. Ha senso? E poi, insieme ai big data si diffonde la fenomenologia degli Small Data. Se hai pochi dati, che cosa fai? Abbandoni? La ricerca sta andando avanti anche su questo fronte, per produrre analisi che siano coerenti. Ed è un mondo apertissimo. Un altro esempio è il Cloud. Non sta sulle nuvole: oggi lo fai in casa! Sono le situazioni limite ad aprire il futuro e bisogna guardare all’innovazione nel suo complesso, non nel giardino di casa. Secondo l’Onu il 14% della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata e noi siamo preoccupati del gap sulla banda larga o stretta nelle singole aree del Paese.
Come vede il futuro del lavoro, rispetto all’uso delle tecnologie?
Per anni siamo stati convinti che la conoscenza della tecnologia avrebbe salvato l’occupabilità delle persone. In realtà questo non è vero. La tecnologia massacra i lavori culturali e intellettuali. Bisogna preparare le risorse in termini diversi. Tra pochi anni saranno presenti sul mercato più disoccupati over50 con competenze di alta professionalità che giovani in cerca di prima occupazione. Occorre cambiare modello di impiego e valorizzazione delle risorse. Bisogna formarle alla disobbedienza, alla responsabilità e al rischio, non soltanto “imbottirle” di conoscenza tecnologica.
Come mai il suo libro ha avuto successo su HR.com e non in Italia?
Da noi prevalgono interessi e siti legati alle diverse associazioni di categoria dei direttori delle risorse umane. In Usa si discute più apertamente di risorse umane in generale.
Sta lavorando a qualche altro saggio?
A breve ne uscirà uno nuovo, pubblicato direttamente con un editore americano. Si chiamerà “La fabbrica degli imbecilli”.