Nella lingua cinese la parola “crisi” si scrive con un
ideogramma che significa “problema” e “opportunità”:
la saggezza asiatica consiglia di uscire dalla crisi cogliendo le
opportunità che ogni cambiamento, anche traumatico, porta con
sé. Oggi, mentre i governi si scontrano sulla riforma del
sistema bancario e sul codice “etico” al capitalismo, tutti –
istituzioni e industria – concordano su una cosa: una exit strategy
efficace deve rilanciare l’innovazione che rappresenta la
grande “opportunità”. Opportunità che l’Italia rischia di
non riuscire a cogliere. Non tanto per il tasso di tecnologia nel
settore produttivo quanto per la sua tipologia. “Nel nostro Paese
non c’è un deficit di innovazione incrementale, ovvero di
inserimento sul mercato di prodotti migliorati, ma di
‘sistema’, che impatta sulle modalità di produzione e sulla
cultura di impresa – spiega Francesco Sacco, docente
all’Università Bocconi di Milano e Managing Director del centro
di ricerca EntER -. Gran parte delle cause sono da cercare nel tipo
di investimento che snobba il venture capital, la forma più
efficace di finanziamento a progetti abilitanti”. Nel rapporto
“Science techonology and Innovation in Europe”, l’Eurostat
rileva che l’Italia spende in media meno di 30 milioni di euro
l’anno sotto forma di “capitalismo di ventura” a fronte di un
benchmark britannico che si attesta sui 4 miliardi di euro (la
media Ue è di circa 5 miliardi).
“In Europa ci considerano moderate innovators – puntualizza Sacco
-. Le grandi imprese italiane avviano progetti intra-muros (secondo
i dati Istat del 2009 questa spesa rappresenta il 70% della spesa
globale in ricerca ndr) di trasformazioni nell’organizzazione
interna, dove il capitale di rischio non è necessario. Una volta
raggiunto l’obiettivo, questo non si diffonde, non diventa una
best practice da replicare”. A dimostrare la “staticità”
dell’hi-tech made in Italy anche il numero di addetti alla
Ricerca e Sviluppo nelle imprese italiane, fanalino di coda in
Europa. Secondo l’ultimo rapporto del Cotec, su mille dipendenti
solo quattro si occupano di R&S, contro gli 11 della Francia i 10
della Germania. Alla scarsità di risorse umane va aggiunto il
fatto che non si fa ricerca in una logica di filiera: le grandi
imprese non sono interessate a parlare con gli altri attori
dell’innovazione, prima fra tutti l’università. “Anche
l’università è una sorta di monade: i ricercatori non
interagiscono con il mondo dell’impresa – spiega Regina Casonato,
Mvp di Gartner -. Impresa e scuola restano due realtà escludenti
che non si supportano a vicenda”.
Una prima soluzione per cambiare il quadro è facilitare
l’ingresso di “cervelli” stranieri e fermare la fuga degli
italiani all’estero. “Si devono trovare delle forme che rendano
conveniente agli atenei assumere ricercatori e metterli a lavorare
su progetti, concertati con le aziende”, puntualizza Sacco .
Ma il tessuto produttivo italiano è fatto di Pmi che poco hanno
a che fare con il mondo accademico, dove spadroneggiano le
multinazionali. La piccola impresa resta fuori anche da quel poco
di concertazione che c’è, pagando più di altre lo scotto della
crisi. E tagliando i budget IT che, per loro natura, non assicurano
ritorni economici nel breve periodo su cui si conta di più.
Anche Confindustria Servizi innovativi e tecnologici ha lanciato
l’allarme innovazione, preoccupata di come la carenza di
investimenti vada a impattare in un comparto che ha già bruciato
90mila posti di lavoro dall’inizio della crisi. “L’Ict ha
registrato un calo del 3,6%, – fanno sapere da Csit -. La causa
è il taglio dei budget da parte dei committenti che hanno
costretto a decurtare collaborazioni e consulenze”.
In questo quadro come agiscono le istituzioni?
In passato il governo Prodi ha avviato Industria 2015 oggi è il
momento di E-gov 2012 che ha messo la PA al centro della
“rivoluzione innovativa”. Programmi che possono contribuire a
ridare slancio al sistema Paese, ma solo se accompagnati da una
massiccia riforma della burocrazia.
“La burocrazia è la vera palla al piede, con un eccesso di norme
che rende difficile investire – sostiene Gianpaolo Galli, direttore
generale di Confindustria- . Gli imprenditori italiani sono pronti
a fare la loro parte, trovando driver di crescita, esplorando nuovi
mercati, ma le istituzioni devono fare la loro parte”.