LA SENTENZA

L’oblio dell’oblio: Londra obbliga Google a rimuovere tutti i link a catena

Una sentenza dell’Information Commission Office impone di eliminare in 30 giorni i link riconducibili a tutte le notizie legate alla richieste di diritto all’oblio. Anche quelle in cui non si nomina più il protagonista. Un perverso gioco di scatole cinesi che rischia di mandare nel pallone BigG

Pubblicato il 21 Ago 2015

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Il diritto all’oblio impone che i motori di ricerca elimino i collegamenti a nuovi contenuti che in qualche modo, anche indirettamente, possono essere ricondotti, tramite una query con il nome dell’interessato, a chi aveva inoltrato la richiesta di essere “dimenticato” dalla Rete. È questo, in sostanza, ciò che implica la sentenza emessa dall’Information Commission Office (ICO) di Londra nei confronti di Google, che ora dispone di 32 giorni per eliminare nove link ad altrettanti articoli giornalistici dedicati non tanto al fatto di cronaca di cui si era reso responsabile il ricorrente dieci anni fa, quanto al fatto che pezzi precedenti che parlavano del caso fossero stati rimossi proprio per l’introduzione del principio del diritto all’oblio. Sembra un gioco di scatole cinesi, eppure è la diretta conseguenza di quanto stabilito a livello comunitario. Ed è un principio che non piace troppo a Mountain View.

Google si era infatti rifiutata di eliminare i link ai nuovi articoli, che contenevano dettagli del crimine ma non il nome dell’autore del reato, sostenendo che si trattava di cronaca e informazioni di pubblico interesse. Niente da fare: se a quelle pubblicazioni si arriva digitando le generalità del soggetto in questione, quei link ne ledono la privacy. Inoltre “non si tratta di un caso in cui le informazioni riguardano un personaggio pubblico o in cui la loro disponibilità può aiutare a proteggere la collettività da condotte professionali scorrette, senza contare che sono notizie di non stretta attualità”, ha dichiarato David Smith, commissario dell’ICO, leggendo il dispositivo. “La Commissione accetta il fatto che i risultati delle ricerche sulla materia in questione riconducano a contenuti giornalistici, che non sono messi in discussione. L’interesse del pubblico può adeguatamente e correttamente essere soddisfatto anche senza effettuare ricerche che contengano il nome del ricorrente”.

Ora tutto ciò che resta a Big G, che per il momento non ha commentato la sentenza, è l’appello alla General Regulatory Chamber. Ma le speranze di ottenere una decisione diversa sono minime. Lo stesso Smith ha ribadito che “la sentenza della Corte di Giustizia europea dell’anno scorso (13 maggio 2014, ndr) ha acclarato che i collegamenti generati dalle ricerche effettuate sul nome di un individuo sono sottoposti alle norme relative alla protezione dei dati. Quindi non devono includere informazioni personali che non sono più rilevanti”.

Il problema è che, con il 90% di quota di mercato nell’ambito dell’on line search in Europa, Google continuerà a rimanere sotto i riflettori delle Autorità competenti. E un precedente del genere apre spiragli pericolosi rispetto ad altre rivendicazioni e al già precario equilibrio che Mountain View ha stabilito con i media on line del Vecchio continente. Dal maggio 2014 Google ha già ricevuto oltre 250 mila domande (20 mila dall’Italia) per circa un milione di link esaminati, di cui 320 mila rimossi.

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