“L’ultrabroadband non sia una scusa: le aziende devono digitalizzarsi subito”

Alfredo Arpaia, senior partner di Roland Berger: “Il mercato italiano ha bisogno del digitale per agganciare la ripresa. Chi non si trasforma mette a rischio la sopravvivenza della propria impresa. La banda ultralarga è solo una delle condizioni, e da sola non basta”

Pubblicato il 30 Nov 2015

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“Il digital divide è un falso mito. Le aziende italiane nate “non digitali” non devono utilizzare la mancanza della banda ultralarga come una scusa per non innescare la propria digitalizzazione. Perché le conseguenze potrebbero essere gravi, fino a mettere a rischio la sopravvivenza dell’impresa”. Così Alfredo Arpaia, senior partner della società di consulenza internazionale Roland Berger, sintetizza la propria idea di trasformazione digitale, con un focus sul mercato Italiano, “che ha bisogno del digitale per agganciare la ripresa”.

Arpaia, perché definisce il digital divide come “falso mito”?

Roland Berger ha dedicato a questo tema una recente survey internazionale, dalla quale emerge la proiezione che 3 aziende su 4 usciranno entro il 2027 dallo S&P500 perché non saranno riuscite nella trasformazione digitale. In un caso su due questo sarà dovuto alla mancanza di preparazione manageriale e di leadership. Per sopravvivere bisogna trasformarsi e la digitalizzazione può abilitare la trasformazione: la banda larga è soltanto una delle condizioni per la digitalizzazione, certo necessaria ma non sufficiente.

E in Italia?

Nel nostro Paese in questo momento il dibattito si sviluppa soprattutto intorno alla disponibilità dell’infrastruttura. Ma dalla ricerca emerge che non c’è un nesso tra il tasso di fallimento delle imprese e la disponibilità di connessioni superveloci, mentre la relazione è stretta tra le aziende che perdono terreno e la mancanza di innovazione digitale al loro interno. Quindi non è vero che basta la disponibilità infrastrutturale perché le aziende prosperino. I dati mostrano con chiarezza che dove c’è più digitalizzazione c’è anche più fatturato e più fatturato all’estero, e le aziende sono più resiliente ai cicli economici. Chi ha più web activity, in sostanza, fallisce o rischia di meno.

Le aziende italiane nate “analogiche” sono pronte per questo cambiamento?

Non tutte. Dai nostri dati risulta ad esempio che una su due dice di non essere preparata culturalmente, dice di non avere gli strumenti per capire se la digitalizzazione farà bene o farà male alle proprie attività. Questo ovviamente incide sulla capacità di trasformazione interna. Credo però che si possa innescare rapidamente un circuito virtuoso che, partendo dalle grandi realtà imprenditoriali possa coinvolgere anche quelle più piccole, stimolandole al cambiamento.

Tra “rivoluzione” e “approccio graduale” al digitale quale ricetta sceglierebbe?

Se guardiamo alle aziende nate “non digitali”, che hanno sistemi informatici ma non sono pienamente digitali, la sfida è far partire la digitalizzazione senza che si debba cambiar pelle da un giorno all’altro. Soprattutto per i player più grandi sarà importante continuare a sostenere il proprio business model “tradizionale” che assicurerà ancora per anni la parte più importante del fatturato, trovando il modo di cambiare in corsa. Le due anime dovranno convivere con il “tradizionale” che sopravvive mentre si agganciano le nuove opportunità di business.

Qual è la ricetta per la trasformazione digitale che parte dall’interno?

Credo che il processo debba poggiare su cinque pilastri, di cui il primo è la digital Governance: il ceo, in sostanza, deve scommettere sul cambiamento e potersi servire di un “digital champion” di primo livello, quasi fosse un suo alter ego. Credo poi che il “conflitto” tra digitale e analogico all’interno di una società possa essere, se ben governato, un’opportunità e non un rischio per la crescita. E’ poi importante che le realtà più grandi del panorama dell’imprenditoria nazionale supportino e si facciano supportare dai player più piccoli, come start up e Pmi: questo può accelerare la trasformazione in una sorta di “Digital open platform”. E infine sarà fondamentale il monitoraggio costante di ogni fase del cambiamento, e un piano di comunicazione che coinvolga i vertici dell’azienda e possa contare sulla collaborazione di tutti.

Al di là dell’ultrabroadband, cosa si può fare per sviluppare la domanda di servizi digitali?

Puntare solo sull’infrastruttura a tutti i costi è come costruire un’autostrada a otto corsie senza sapere quali macchine la percorreranno. Per questo è fondamentale, e i grandi gruppi lo stanno già facendo, mettere a punto una serie di servizi digitali che stimolino la domanda. Fondamentale, al di là dell’impegno delle imprese, sarà il contributo che deve venire dalla PA per i servizi al cittadino.

Sarà sufficiente l’offerta di servizi per far partire la domanda?

Non necessariamente. Servirà un mix di push e pull. Per alcuni servizi mi pare che la domanda sia pronta: guardiamo a contenuti, all’offerta televisiva digitale: in questi casi il matching tra domanda e offerta avviene in modo quasi naturale. In altri campi invece sarà necessario lavorare di più sul coinvolgimento degli utenti: è il caso dei pagamenti digitali, dove le tecnologie sono ormai mature, ma le persone mantengono una diffidenza che impedisce la diffusione rapida e capillare dei servizi.

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