Ricomincia l’incubo per le multinazionali tecnologiche con forti interessi in Cina. A rischio ci sono i contratti milionari con le principali banche del Paese che, dicono le autorità cinesi, vanno maggiormente tutelate sotto il profilo della cybersecurity. Si tratta in realtà dell’ennesima puntata di una querelle che va avanti da ormai un anno. La scorsa estate il governo di Pechino aveva sollevato tutta una serie di obiezioni e insinuazioni nei confronti dei colossi dell’IT in seguito allo scandalo dell’NSA. In alcuni casi i bandi di procurement per la pubblica amministrazione erano diventati vere e proprie liste di proscrizione soprattutto per alcune aziende americane, tacciate di collaborazionismo con l’agenzia denunciata da Edward Snowden. Il governo cinese si è poi focalizzato sulla sicurezza degli istituti finanziari, esigendo da Microsoft, Cisco e IBM addirittura i codici sorgente dei software inseriti nei prodotti venduti alle banche alle quali comunque si raccomandava di scegliere fornitori nell’ambito del mercato domestico.
Tutto questo fino ad aprile, quando tra il sollievo generale Pechino sospese l’offensiva contro i vendor occidentali annullando le misure restrittive. Alla fine della settimana scorsa, però, il colpo di scena: gli agenti della China Banking Regulatory Commission (Cbrc) hanno incontrato i rappresentanti delle succitate società e di altre tech company internazionali e cinesi per chiedere la loro valutazione sulla possibilità di ripristinare quello che di fatto rappresenta un embargo nei confronti di Europa e Stati Uniti.
E forse non è un caso che la Cina rispolveri queste restrizioni oggi che le borse asiatiche sono in fibrillazione e alla vigilia della prima visita ufficiale a Washington del presidente Xi Jinping, sulla cui agenda è già sottolineato in rosso il tema della cybersecurity. Se Obama aveva rivendicato la cessazione delle ostilità di aprile come un successo diplomatico della visita a Pechino di Jack Lew, segretario del Tesoro, Penny Pritzker, titolare del ministero del Commercio, il mese prossimo lo staff della Casa Bianca dovrà bissare lo sforzo già fatto in primavera, riuscendo a strappare al capo di stato la promessa che non solo in via ufficiale, ma anche all’atto pratico le banche cinesi non vengano “incoraggiate” ad acquistare solo presso compagnie locali. Compagnie che, secondo l’agenzia Reuters, si stanno già fregando le mani all’idea di riuscire a soffiare ai competitor occidentali commesse per milioni di dollari.
Dal canto loro, le aziende americane chiamate in causa sembrano fare buon viso a cattivo gioco sul fronte della cooperazione per la condivisione dei codici sorgenti, mentre rimangono scettiche sulla possibilità che anche con la revoca delle restrizioni sia possibile tornare a fare con le banche cinesi gli affari di una volta.
Al di là di quel che potrà fare la diplomazia il mese prossimo, la speranza oggi è che il pacchetto di regole proposto dalla China Banking Regulatory Commission violi apertamente i termini del WTO (World Trade Organization), ma i rappresentanti del CBRC hanno già comunicato a politici e manager di aver consultato sia il ministro cinese del Commercio, sia gli esperti dell’ente sovranazionale per essere certi che le proposte fossero conformi agli obblighi della Cina rispetto al trattato.