La carenza di chip a livello globale sta colpendo diversi settori, in particolare quello dell’automotive che rischia addirittura il blocco della produzione. Lo stabilimento Stellantis di Melfi, ad esempio, ha stoppato le attività fino al 10 maggio proprio per la mancanza di semiconduttori.
E anche altre case automobilistiche sono in sofferenza: Ford stima di produrre 1 milione di veicoli in meno e Volkswagen ha fermato la produzione di Suv.
La crisi ha una doppia causa. La pandemia ha spostato la produzione di chip verso altri settori come quelli dell’elettronica di consumo e la ripresa economica più rapida del previsto che ha visto molte aziende – quelle dell’automotive in testa- aumentare la loro domanda.
Secondo Bloomberg l’industria dei semiconduttori vale circa 500 miliardi. Ma la produzione è concentrata in pochi paesi come Corea del Sud, Taiwan e Giappone mentre Cina e Usa producono meno di quanto consumano; inoltre a Pechino e Washington hanno tenuto per sé tutti i semiconduttori conduttori prodotti “in casa”, andando ad aggravare ulteriormente la crisi.
A dettare legge in questo mercato sono solo due gruppi che hanno sede in Estremo Oriente. La Tsmc di Taiwan e la coreana Samsung che da sole coprono il 70% del mercato mondiale. Con una differenza notevole fra i due gruppi: Samsung utilizza i microprocessori innanzitutto per le sue apparecchiature. E in ogni caso i concorrenti non hanno molta voglia di rifornirsi da un gruppo con cui sono in competizione sul mercato di consumo.
Tsmc ha da poco approvato un altro investimento da tre miliardi di dollari per aumentare la capacità produttiva. Vuole consolidarsi come la a più grande fonderia di semiconduttori al mondo, che tra i suoi clienti può annoverare Apple e Qualcomm che negli anni scorsi avevano ceduto le proprie linee di produzione.
La Taiwan Semiconductor Manufacturing Co Ltd, prevede di essere in grado di far fronte alle richieste minime (minimum requirement) dei propri clienti di chip per auto entro la fine di giugno. Parlando al programma “60 Minutes” della Cbs, il presidente della Tsmc, Mark Liu, ha dichiarato che la compagnia ha avuto notizia per la prima volta delle carenze di chip a dicembre e già dal mese successivo hanno iniziato a cercare di produrre il maggior numero di chip possibile per le case automobilistiche. Liu ha poi affermato: “Oggi pensiamo di poter far fronte alle richieste minime dei nostri clienti entro la fine di giugno”. Alla domanda se intendesse dire che la carenza di chip per auto sarebbe finita in due mesi, ha risposto “no”, aggiungendo: “C’è uno scarto di tempo. Soprattutto nei chip per auto, la catena di approvvigionamento e’ lunga e complessa. La fornitura richiede dai sette agli otto mesi”.
La strategie di Usa e Ue
Senza un aumento di produzione la ripresa post pandemia verrà messa a dura prova. Per questo motivo il presidente americano Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo mettendo a disposizione 40 miliardi di dollari per sviluppare la produzione made in Usa. A questo si aggiungono l’American Jobs Act e il Chips for American Act, 50 miliardi di dollari in 5 anni per l’industria dei semiconduttori sotto forma di sovvenzioni aggiuntive e iniziative di R&D.
Secondo Boston Consulting Group, nel complesso questo programma sarebbe efficace nell’invertire il declino degli ultimi 30 anni nella produzione di semiconduttori negli Stati Uniti, permettendo la costruzione di 19 fabbriche nei prossimi dieci anni, capaci di riportare la quota statunitense della produzione mondiale nel settore al 24%.
E le aziende si stanno già attrezzando. Intel ha già annunciato un investimento totale da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. Sempre in Arizon dovrebbe sorgere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics e quello da 12 miliardi di dollari che Tsmc si è impegnata a costruire entro il 2023 sotto la pressione politica dell’amministrazione Trump.
Anche l’Europa ha iniziato a muoversi: sta trattando con Nxp, Infineon, STMicroelectronics, Bosch, Siemens, Asml” e con i ricercatori di Cea-Leti in Francia, dell’istituto Fraunhofer in Germania o Imec in Belgio e Paesi Bassi. L’obiettivo è realizzare un Progetto di comune interesse europeo del valore di circa venti miliardi di euro.
Il commissario Ue al Mercato interno, Thierry Breton, ha spiegato che “l’obiettivo è prima di tutto raddoppiare la nostra capacità produttiva e la nostra quota di mercato entro il 2030, dal 10% di oggi al 20% di domani”.
“Nell’ambito della revisione strategica industriale dell’Unione europea che sarà presentata il 5 maggio – ha detto – lanceremo un’alleanza europea che riunirà tutti gli attori della catena di produzione dei semiconduttori“, aggiunge il commissario, secondo cui 22 Paesi membri “già sostengono il progetto”.
Intel si è detta pronta a contribuire al piano europeo. “Ma servono 8 miliardi di aiuti pubblici”, ha spiegato il ceo Pat Gelsinger che nei giorni scorsi ha incontrato proprio Breton.
L’importanza strategica del settore è subito balzata all’occhio del premier italiano Mario Draghi che tra i suoi primi atti di Governo ha posto il veto sulla vendita di una società milanese, la Lpe di Baranzate, che sviluppa reattori utilizzati per la produzione di semiconduttori, a una società cinese, adottando il golden power.
Tensioni geopolitiche
La crisi è aggravata da tensioni geopolitiche. Taiwan in conflitto con Pechino produce – abbiamo visto – il 70% della produzione necessaria all’industria globale dell’automotive. Secondo l’Economist la Cina potrebbe addirittura muovere guerra a Taiwan a sua volta protetta dagli Usa, solo per risolvere il collo di bottiglia produttivo.
Segno dell’attenzione degli Stati Uniti verso l’isola è certamente l’invio lo scorso 14 aprile di una delegazione guidata dall’ex senatore Chris Dodd, amico personale di Biden, che ha incontrato la presidente Tsai Ing-wen, nonché l’inaspettata richiesta di Joe Biden di una dichiarazione congiunta a sostegno di Taiwan al premier giapponese Suga Yoshihide in visita ufficiale a Washington.