IL CASO APPLE

La guerra fiscale fra l’Europa e gli Usa

La Commissione europea ha dichiarato illegittimo il regime fiscale applicato nello scorso decennio dall’Irlanda ad Apple. Se non si possono allineare i sistemi fiscali europei, serve almeno un coordinamento minimo sui regimi applicabili alle grandi imprese che operano su più mercati dell’Unione

Pubblicato il 02 Set 2016

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La Commissione europea ha preso posizione sul regime fiscale applicato nello scorso decennio ad Apple da parte del fisco irlandese e ha statuito la sua illegittimità. Non è, quindi, Apple ad aver violato alcunché, ma l’Irlanda ad aver adottato un regime che si è tradotto in un aiuto di Stato – illegittimo – a quest’ultima (con lo scopo sottostante di rendere la localizzazione di Apple in Irlanda più appetibile di quella in altri paesi Ue).

Consegue che non c’è nessuna contestazione a carico di Apple, ma l’Irlanda viene obbligata a recuperare (con interessi) il trattamento di favore applicato. Malcontati, fanno almeno 16 miliardi di euro. La presa di posizione della Commissione europea è coraggiosa sul piano politico perché si cimenta con fatti reali ed evidenti (insignificanti pagamenti di imposte in ambito Ue, pur con visibile ricchezza ivi generata), ma è piuttosto discutibile sul piano procedurale. Non viene contestata all’Irlanda una legge in contrasto con le norme europee, ma un ruling, cioè un atto amministrativo, in sé e per sé pienamente legittimo e frutto di norme organizzative interne al mero funzionamento del fisco irlandese.

Il ruling in questione, da quel che si capisce dal comunicato emesso (il testo completo del deliberato non è stato ancora reso noto), riconosce come deducibili – cioè idonei a ridurre la base imponibile – gli importi attribuiti a un (non meglio identificato) “ufficio centrale” non irlandese per attività di ricerca e sviluppo che questi sarebbe impegnato a effettuare. Sennonché la Commissione, investigando il contenuto di questo “ufficio centrale”, ha verificato che non aveva strutture sufficienti a realizzare le dette ricerche e sviluppi. L’importo così attribuito non corrispondeva, dunque, al beneficio effettivamente apportato ad Apple Irlanda dall’attività dell’“ufficio centrale” ed esso non poteva, conseguentemente, ridurre la base imponibile irlandese. Insomma, si può ben dire che la Commissione ha proceduto a un’attività di accertamento fiscale tipica delle amministrazioni tributarie nazionali. Ma, estremizzando, è come se la Commissione Ue si fosse arrogata il diritto di dire se una licenza edilizia è stata correttamente rilasciata (se l’autorizzazione altera la concorrenza nel mercato edilizio). Il dubbio se i poteri di intervento della Commissione siano davvero così penetranti, onestamente, sorge.

Significativo è, però, il messaggio collaterale aggiunto: l’ammontare dovuto all’Irlanda potrà essere ridotto in funzione degli importi che potranno essere richiesti da “altre” amministrazioni tributarie Ue. La Commissione, cioè, non prende posizione circa la localizzazione del profitto realizzato da Apple, e cioè se debba intendersi realizzato tutto in Irlanda o parte in Irlanda e parte in altri paesi dell’Unione. Afferma solo che su detto profitto Apple avrebbe dovuto pagare l’aliquota irlandese ordinaria, vale a dire il 12,5 per cento e non lo 0,0025 per cento come in alcuni periodi è avvenuto. Se poi altri paesi Ue rivendicheranno qualche ulteriore importo nella considerazione che parte del reddito – attualmente attribuito all’Irlanda – avrebbe dovuto essere attribuito a essi, la base imponibile irlandese andrà semplicemente ridotta in corrispondenza. Il che vuol dire meno imponibile irlandese (al 12,5 per cento) e maggior imponibile nel paese in questione (se fosse l’Italia, al 27,5 per cento o alla maggior aliquota all’epoca vigente).

Da dove iniziare

Che lezione trarre da questa vicenda? Credo si debba prendere atto che la liberalizzazione di movimento della ricchezza immateriale – titoli o tecnologie che essa sia – obbliga a coordinare o addirittura allineare i sistemi fiscali europei (oggi coordinati solo sull’imposizione indiretta). Se non si va su questa strada, la concorrenza fra Stati non può che portare a disastrose politiche iperconcorrenziali che si risolvono – attesa la necessità di incassare tributi – in tendenziali esenzioni dei redditi d’impresa, sostituendo il relativo gettito con maggiori prelievi sui redditi di lavoro e sui consumi.

Ma se la via maestra appare oggi troppo impervia e lontana, si può almeno cominciare con un coordinamento minimo sui regimi applicabili alle grandi imprese che operano su più mercati europei: attraverso metodologie di determinazione del reddito comuni (pur mantenendo le aliquote proprie di ciascun paese); la definizione della quota di base imponibile attribuibile a ciascuno Stato in base a criteri proporzionali e la creazione di un organismo comune designato alle attività di accertamento e monitoraggio dell’impresa in questione.

Tratto dal sito lavoce.info

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