L’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati scrisse nel lontano 2005: «La tecnologia non è più appannaggio esclusivo di scienziati, ingegneri e addetti ai lavori, ma è entrata nelle case, negli uffici, negli studi professionali e la portata rivoluzionaria di questa irruzione appare riflettersi inevitabilmente nel campo del diritto, ponendo nuove sfide al giurista; per queste ragioni, non può più considerarsi tale chi si ostini a non volersi occupare dell’informatica, a rifiutare di capire come e quanto possa servire a migliorare la qualità della vita, a non cercare di vederne le applicazioni professionali. Un avvocato che si rifiutasse di compiere questo sforzo, usando le parole di un maestro quale Renato Borruso, si porrebbe allo stesso livello di chi volesse comprendere il diritto vigente senza saper essere uomo del suo tempo.» Confesso che sospettai in tali parole l’enfasi di un’arringa priva tuttavia di altrettanta sostanza nei fatti. A dieci anni di distanza, grazie agli effetti del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44, bisogna riconoscere che il livello di cultura informatica irradiatosi negli uffici giudiziari e negli studi legali è più alto di quanto comunemente si creda. L’iter giudiziario civile pone la Giustizia un gradino più in alto di molte componenti della PA. Altra cosa è per il giudizio penale, i cui limiti informatici furono additati da queste colonne.
Vi sono tuttavia le basi per un rapido progresso e questo non mancherà di manifestarsi in tempi ragionevoli, proprio grazie alla cultura informatica diffusasi nelle cancellerie. A ben vedere chi lamenta l’eccesso di avvocati fra i parlamentari forse deve ripensarci.