Per le presidenziali americane del 2020 c’è un candidato che entusiasma la Silicon Valley, il Democratico Andrew Yang. Nei sondaggi nazionali non raggiunge più del 2% delle preferenze, ma in California continua a raccogliere consensi, come dimostra il sold-out dei locali dove tiene incontri e dibattiti, affollati da ingegneri, sviluppatori e product manager. Yang – 44 anni, nato nello Stato di New York da genitori di Taiwan, laureato in Economia e in Legge e fondatore della no profit Venture for America – non piace solo ai Democratici, ma anche ai conservatori “delusi” perché sa parlare la lingua della tecnologia e rispondere alle grandi preoccupazioni di chi lavora nell’hitech: come conciliare lo sviluppo tecnologico con etica e privacy e come gestire le Big Tech senza arrivare all’estremo dello scorporo aziendale minacciato dalla candidata Democratica Elizabeth Warren.
C’è un altro punto del programma di Yang che suscita interesse: il salario universale di base, pari a 1.000 dollari al mese per ogni residente negli Usa. Una forma di reddito di cittadinanza, ma Yang lo chiama “Freedom dividend”. Non è socialismo, chiarisce il candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ma “capitalismo che permette alle persone di non partire da zero”. Ed è denaro che ritorna nell’economia tramite investimenti e consumi, sostiene Yang. Il freedom dividend ha già attratto donazioni da top manager di aziende tecnologiche, come il direttore della divisione Google G suite Scott Johnston, che ha dato 2.700 dollari, il ceo di OpenAI Sam Altman, che ha dato sempre 2.700 dollari, e Gerald Huff, principal software engineer di Tesla, che ne ha donati 2.000.
La Silicon Valley apprezza anche i toni moderati di Yang sul dominio dei colossi del digitale come Google, Apple e Facebook, che diversi politici vorrebbero “spezzettare” per motivi antitrust. Yang ha detto che in alcuni casi potrebbe essere una buona soluzione smembrare le Big Tech ma in realtà la questione è molto più complicata. Per esempio, molte startup in Silicon Valley mirano a diventare una minaccia per i big per farsi acquisire: così i grandi diventano sempre più grandi, la concorrenza si restringe e ne soffre anche l’innovazione.
Yang piace a chi lavora nel settore hitech per un altro punto della sua agenda: la sensibilità nei confronti delle questioni etiche legate allo sviluppo tecnologico. Automazione, intelligenza artificiale, privacy dei dati sono temi dalle profonde implicazioni per la società e il mondo del lavoro. La Silicon Valley è sempre più attenta a questi problemi e cerca soluzioni. Yang spesso sottolinea la necessità di percorsi di formazione continua e retraining della forza lavoro più efficaci di quelli proposti finora dalla politica o dalle grandi imprese. “Mi sono fermato in un’area di sosta in Iowa e se avessi chiesto a qualcuno se fosse interessato a una carriera nel software avrei probabilmente ricevuto un pugno in faccia”, ha raccontato Yang in un recente incontro a San Francisco. Eppure l’America deve far questo: “Trasformare i minatori in sviluppatori”.
Yang attrae consensi in California anche grazie al linguaggio chiaro e al metodo scientifico con cui affronta le questioni, lo stesso che usano le aziende hitech, basato sugli Okr, objective key results: si parte dai dati e si cerca di arrivare a risultati misurabili. I sostenitori di Yang hanno anche diffuso magliette e cappelli con l’acronimo MATH, che significa matematica ma come sigla sta per “Make America Think Harder” e che sintetizza l’approccio di Yang basato sui numeri.
“Sarò un’alternativa all’establishment”, ha promesso Yang ai suoi seguaci, molti dei quali riuniti in gruppi chiamati “Yang Gang”. “Sono l’uomo giusto per fare il presidente perché l’esatto contrario di Donald Trump è un asiatico a cui piace la matematica” – una battuta che gli è valsa scroscianti applausi.