PUNTI DI VISTA

La ultrabroadband del nostro scontento

Il procedimento che porterà ai bandi sarà lungo e tortuoso. Il 2020 è alle porte, l’Agenda digitale un po’ meno. La rubrica di Nicola D’Angelo

Pubblicato il 20 Nov 2015

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Il piano per la larga banda procede, ma solo nei preliminari. Mentre l’Italia non decolla dalla parte bassa delle classifiche europee sugli accessi ad internet (anche se qualche miglioramento c’è stato) e il Governo sembra intenzionato a dimezzare i fondi destinati alla pubblica amministrazione per la sua informatizzazione, continuano le manovre su chi e come sarà destinatario dei fondi messi a disposizione dallo Stato per realizzare la rete per la banda larga super veloce.

In questo gran discutere, sfugge però un elemento di tutta evidenza: al di là delle coperture, cioè dell’estensione della rete, è la richiesta di accesso fisso ad internet nelle case degli italiani che manca.

Qualche dato in proposito è illuminante (fonte Eurostat e Digital Agenda Scoreboard). Le reti ADSL, con diversa qualità, coprono il 99% della popolazione, mentre gli abbonamenti relativi sono solo al 70% (contro la media europea dell’80%).

Le reti in fibra ottica coprono il 36% della popolazione (media europea 68%) con un numero di relativi abbonamenti pari a circa il 2% (media europea 43%). Da questi dati è possibile trarre due considerazioni. La prima, che lo sviluppo della larga e della larghissima banda è stato fino ad ora esclusivamente opera degli operatori privati.

Questi ultimi hanno precisi piani di sviluppo (talvolta in sinergia tra loro, come nel caso di Telecom e Fastweb). Salvo cataclismi societari o pastoie burocratiche sembrano intenzionati a proseguire, soprattutto se ciò sarà conveniente per l’aumento della domanda. La seconda considerazione riguarda la differenza tra copertura della rete e abbonamenti attivi. L’Italia sconta prezzi di accesso tra i meno convenienti d’Europa e la percezione della scarsa utilità di dotarsi di un collegamento alla larga banda.

Sui costi si può agire sostenendo la domanda (in parte il piano del Governo si occupa di questo aspetto) e le famiglie, attraverso incentivi di nuova concezione (ad esempio, di tipo fiscale). Per quel che riguarda la mentalità, si può far fronte con un diffuso processo educativo sull’uso delle nuove tecnologie digitali e con un importante ruolo della pubblica amministrazione.

Non potrà infatti essere solo l’offerta di contenuti audiovisivi, come sostengono alcuni, in grado di sostenere lo sviluppo delle reti di nuova generazione. Ovviamente resta sullo sfondo l’impegno del Governo. Dopo l’approvazione del piano che ha diviso il territorio nazionale in quattro tipi di aree (cluster), il CIPE nel mese di agosto ha materialmente stanziato 2 miliardi e 200 milioni di euro per le zone cosiddette a fallimento di mercato e rurali (rispettivamente cluster C 1.900 milioni e D 300 milioni) ed è in trattativa con Bruxelles per il via libera della Commissione UE (previsto, salvo contrattempi, per i primi mesi del 2016).

Così come continuano i contatti con le regioni e la messa a punto delle regole necessarie (quelle sul catasto e sulla condivisione delle infrastrutture e sui costi di accesso per gli operatori alla rete di nuova generazione). Solo alla fine di questo lungo processo partiranno i bandi. Il 2020 è alle porte, gli obiettivi dell’Agenda digitale un po’ meno.

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