LA MANOVRA

La web tax slitta al 2019. E non sarà per tutti

L’emendamento Mucchetti passa in commissione Bilancio al Senato in versione rivisitata: escluse le imprese agricole e quelle che hanno aderito al regime forfettario. Spetterà al Ministero dell’economia, con decreto da emanare entro il 30 aprile 2018, definire nello specifico le prestazioni di servizi a cui applicare l’aliquota del 6%

Pubblicato il 27 Nov 2017

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Slitta al 2019 la web tax. E porta con sé il “tesoretto” di gettito atteso dai parlamentari per introdurre nella legge di bilancio nuove modifiche bisognose di coperture. L’emendamento di Massimo Mucchetti che introduce l’imposta del 6% sui ricavi digitali è arrivato alla sua terza versione, rivista e corretta, è ed stato approvato dalla commissione Bilancio di Palazzo Madama. Le modifiche riguardano anche la platea di dei soggetti: sono escluse le imprese agricole, i soggetti che hanno aderito al regime forfettario e i cosiddetti “minimi”. Sarà lo spesometro a monitorare i big della rete che dovranno versare in Italia l’imposta del 6% sulle transazioni digitali. Sulla base delle segnalazioni inviate all’Agenzia delle Entrate dagli acquirenti, il Fisco potrà controllare costantemente l’attività online di residenti e non residenti.

Le banche fungeranno da sostituti di imposta: dovranno applicare una ritenuta d’imposta con obbligo di rivalsa sul soggetto che percepisce i corrispettivi.

Per non penalizzare le imprese italiane e quelle residenti nel territorio dello Stato entra in gioco il credito d’imposta pari all’imposta digitale versata sulle transazioni digitali che potrà essere utilizzato ai soli fini dei versamenti delle imposte sui redditi. L’eventuale eccedenza potrà essere utilizzata in compensazione per i pagamento di imposte sui redditi (Irpef o Ires), Irap, contributi previdenziali ed assistenziali dovuti dai datori di lavoro e dai committenti di prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa nonché di contributi Inail. Potrà essere utilizzato il modello F24 ma esclusivamente in formato digitale.

La scomparsa del gettito atteso l’anno prossimo dalla web tax (tra i 100 e i 200 milioni secondo le stime) manderebbe in fumo anche altri progetti, come ad esempio l’innalzamento della soglia di reddito entro la quale i figli sono considerati a carico della famiglia, la proroga del bonus mobili alle giovani coppie, o l’estensione, per quanto parziale, della cedolare secca agli affitti commerciali.

La norma sulla web tax, ha spiegato Mucchetti, è stata revisionata per estenderne lo spettro, ma proprio per questo, “perché funzioni e non debba essere modificata dopo pochi mesi”, necessiterà di più tempo per essere messa a punto nel dettaglio. La riformulazione estende potenzialmente l’imposta a tutti i tipi di attività, business to business e business to consumer, ma spetterà al Ministero dell’economia, con apposito decreto da emanare entro il 30 aprile 2018, definire nello specifico “le prestazioni di servizi” a cui applicare l’aliquota del 6%.

Il precedente testo “era organizzato solo per il b2b perché le imprese erano chiamate a fare i sostituti d’imposta, funzione che non era attribuibile ai consumatori”, ha spiegato il senatore.

Ma non tutti nel Pd sono d’accordo con la web tax uscita dal Senato. “Vediamo come chiudono al Senato e se sarà necessario fare delle ulteriori correzioni le faremo alla Camera”, ha fatto sapere il presidente della commissione Bolancio della Camera, Francesco Boccia. E anche il deputato dem, Sergio Boccadutri, è molto critico. Su Twitter ha scitto che la web tax, così come conceipta in Senato, è un “un pasticcio senza eguali. Non scalfisce OverTheTop mentre aumenta costi per clienti finali (e forse anche quelli di chi non usa servizi digitali)”.

Su Facebook invece ha dettagliato meglio la critica. “Allora da una lettura combinata dei commi 9, 13 e 15 della web tax capisco che – scrive – si obbligano “intermediari finanziari” (già la terminologia usata tradisce la competenza di chi ha scritto il testo) a trattenere l’imposta del 6%. Chi ha scritto il testo non capisce nulla di Sepa, Iban e strumenti di pagamento digitali. La transazione non “vede” cosa si sta acquistando. Chi sarebbe obbligato a comunicare che l’oggetto della transazione è un servizio digitale? Il cliente o il fornitore del servizio? A meno che costringere l'”intermediario” (sottolineo l’errore terminologico) a implementare un sistema di sorveglianza onerosissimo. Insomma una cosa impossibile da fare”. Inoltre, prosegue il deputato dem, “si colpiscono le Pmi italiane che vendono i propri beni in un marketplace internazionale, acquistando un servizio digitale (stare nel marketplace). Così il produttore di “sedie made in Italy” vedrà aumentare il costo del servizio a detrimento dei propri margini. Chi ha scritto la norma non capisce nulla di ecommerce, veramente geniale”.

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