«Non siamo di fronte ad una trasformazione del lavoro, ma ad una vera e propria rivoluzione che va, sì, cavalcata ma anche governata per evitare distorsioni sul fronte dei diritti”.
Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione Lavoro della Camera, spiega perché l’avvento dello smart working apre la porte a un cambiamento epocale.
Non una trasformazione, dice lei, ma una rivoluzione. Cosa cambia rispetto ai mutamenti che nel tempo si sono determinati nel lavoro?
Lo smart working, o lavoro agile che dir si voglia, destruttura del tutto il vecchio modello di organizzazione taylorista-fordista che ha caratterizzato la grande impresa e non solo. Ed è in quel modello che, negli anni ’70, si sono inserite le lotte dei lavoratori per migliorare le condizioni dentro l’impresa: penso a quelle per passare dal modello di impresa, più tipicamente organizzato a catena di montaggio, a quello svedese con le isole di montaggio. O a quelle più difensive per ricompattare le mansioni. L’avvento dello smart working fa saltare definitivamente questo quadro.
È la “fine del lavoro” come pronosticato da Jeremy Rifkin?
No, questo non lo credo. Il lavoro si trasforma, si evolve, e nel caso dello smart working si rivoluziona. Ma non scompare.
E allora come fare a cavalcare questa rivoluzione senza destrutturare il lavoro?
Ci sono due rischi principali che vanno scongiurati. Per prima cosa bisogna impedire che la nozione di lavoro, subordinato o autonomo, scada in una dimensione puramente commerciale della prestazione, che diventi esclusivamente a comando e a chiamata, senza obblighi verso il lavoratore. L’esperienza dei voucher, di cui si fa un uso massiccio anche al di fuori delle normative previste dalla legge, può essere un monito.
E il secondo rischio?
Bisogna lavorare per evitare che la nuova dimensione del lavoro, prestato al di fuori dei luoghi convenzionali (ad esempio a domicilio), sia assente di regole. Ovviamente non possiamo ricondurre la nuova organizzazione del lavoro al modello taylorista, che come abbiamo visto ha fatto il suo tempo, ma nemmeno affidarla alla logica più bieca della deregolazione del lavoro e dei diritti.
Che fare allora?
È necessario che la politica e le parti sociali lavorino insieme per trovare soluzioni che tutelino i diritti senza imbrigliare l’innovazione. Ci sono, a mio avviso, due punti con cui dobbiamo misurarci.
Ci dica.
L’attenuazione o la scomparsa della “fisicità” del luogo di lavoro e della identificazione del singolo nella comunità, ma anche della gerarchia. E la scomparsa della nozione di ora-lavoro come misura delle retribuzione. Ecco, è in questi ambiti che si deve giocare e vincere la partita dello smart working.
A questo proposito qualcuno teme, soprattutto sul fronte sindacale, un ritorno al vecchio lavoro a domicilio o addirittura al cottimo. Lei che idea si è fatto?
L’obiettivo a cui si deve tendere è che il lavoratore conservi pienamente i suoi diritti, senza penalizzazioni di carriera e mansioni. Se la retribuzione, come ho appena evidenziato, non è più vincolata all’orario e alla permanenza in azienda bensì al risultato, per evitare il ritorno al cottimo serve dare vita a una nuova organizzazione del lavoro “win-win”. Vince l’azienda che può abbattere alcuni costi legati alla sede aziendale – penso alle mense, alle utenze ad esempio- e vince il lavoratore che, operando da remoto, mantiene la stessa retribuzione e gli stessi diritti, ma conciliando meglio le sue esigenze di vita e professionali. In questo senso ricondurre lo smart working a regole chiare spetta alle parte sociali che, tramite la contrattazione, dettagliano quanto previsto dalla cornice legislativa.
La contrattazione collettiva resta lo strumento principe dunque.
Certamente sì, perché c’è in gioco la “dote” di welfare che bisogna assicurare ai lavoratori cosiddetti agili. È ssolutamente necessario evitare accordi di natura individuale, tra lavoratore e azienda.
Il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, presenta una ddl collegato alla delega del governo. Lì si fa riferimento ad appositi accordi di smart working, adattando caso per caso le regole standard del relativo rapporto di lavoro e con esse orari e luoghi del lavoro…
È un’impostazione che non mi trova d’accordo. Come ho già evidenziato lo strumento per definire regole deve rimanere la contrattazione collettiva perché anche nello smart working c’è una dote di socialità intrinseca alla prestazione lavorativa. Da questo principio non dobbiamo arretrare di un passo.
Come giudica la delega del governo sullo smart working?
Mi pare una buona di partenza su cui ragionare e lavorare. È bene che siano stati definiti diritti come la parità di trattamento economico, il rispetto dei tempi di riposo, il diritto alla sicurezza e alla tutela assicurativa.