Tra le tante considerazioni che si possono fare riflettendo sul caso Roma c’è l’inevitabile presa di coscienza che le nostre città sono diventate sistemi complessi sempre più difficili da gestire. Mettendo da parte, se possibile, valutazioni sulle responsabilità soggettive rimane uno scenario fatto di problemi articolati di difficile gestione e in cui l’informazione e la conoscenza diventano fattori strategici. “Se non la conosci non la puoi gestire” scrive Goldsmith nel suo ultimo libro The responsive city. E ha ragione. Alla base del buon governo del territorio ci deve essere la capacità di prendere decisioni sulla base dell’esatta conoscenza di ciò che avviene. È quello che viene chiamato Data driven decision, ed è la conseguenza virtuosa di un processo in grado di trasformare i dati grezzi in informazioni e queste in conoscenza sui cui prendere decisioni.
Proviamo, con un buon livello di semplificazione, a passare in rassegna i dati che possiamo considerare la base per un governo intelligente delle città. Prima di tutto ci sono i dati istituzionali prodotti da enti quali l’Istat. Cito, solo a titolo di esempio fra la miniera di documentazione prodotta, l’ultimo Rapporto sulla mobilità urbana che ci restituisce una importante e dettagliata fotografia dei diversi sistemi locali della mobilità. Poi ci sono le informazioni che scaturiscono dal funzionamento della macchina pubblica. Basti pensare ai dati raccolti da grandi enti come Inps e Inail. A livello urbano abbiamo i dati sanitari, economici, sulla mobilità. I processi di digitalizzazione in atto, poi, offrono formidabili strumenti per ampliare la conoscenza. L’introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria verso tutta la PA, oltre a velocizzare e razionalizzare i processi di pagamento, è un’importante occasione di conoscenza della spesa pubblica.
I dati istituzionali se resi pubblici diventano Open Government Data, dati aperti a disposizione dei diversi attori sociali (cittadini, imprese, altre istituzioni): un’occasione di trasparenza e di accountability e precondizione per la creazione di valore pubblico tramite partecipazione civica. Poi c’è il capitolo, nuovo, dei dati prodotti dai cittadini. Con il termine crowdsensing, ad esempio, ci si riferisce ai dati prodotti nell’ambito di attività personali e professionali. Gli esempi si sprecano: se compriamo un termometro collegato ad Internet produciamo una informazione per noi stessi e la distribuiamo fornendo un servizio agli altri. Usando un navigatore satellitare diventiamo terminali per la produzione di un miniera di dati sulla mobilità (lo scorso anno Tom Tom ha pubblicato uno studio che si avvaleva di 6 trilioni di segnalazioni Gps anonime popolate da una community di più di 50 milioni di utenti). Se poi l’attività di produzione dati presuppone il coinvolgimento attivo dei cittadini diventa crowdsourcing: è il caso delle piattaforme per la raccolta di segnalazioni guasti o problemi, delle informazioni segnalate dagli utenti usando il software di navigazione Waze.
Per ultima la sentiment analysis tramite la quale si analizzano le conversazioni sui social network per individuare gusti, tendenze, argomenti emergenti. È noto l’esperimento di Google con Flu. Insomma nella città dei dati viviamo in un mondo di petabyte, ma la PA, i nostri governanti sono pronti a trasformare le informazioni in buon governo? Le potenzialità sono enormi: si va dall’analisi dei bisogni, e quindi dalla previsione della domanda, ad una maggiore razionalizzazione della spesa pubblica, ad un miglioramento delle performance. Ma la tecnologia non basta.
È necessario un forte cambio culturale a livello amministrativo e politico. Di questi temi si parlerà dal 14 a al 16 ottobre a Bologna nell’ambito di Smart City Exhibition che quest’anno è dedicata al tema dei dati e si è trasformata nel Citizen Data Festival: 3 giorni di discussioni, laboratori e incontri per diffondere la cultura del dato in Italia.