L'ANALISI

Le start up nascono “maschili”

Dun & Bradstreet: nel 2004 solo il 3% delle tech firm nate Usa avevano tra i fondatori una donna e nel 2009 solo l’11% delle aziende finanziate da fondi di venture capital hanno un Ceo o un fondatore di sesso femminile

Pubblicato il 20 Ott 2012

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L’evoluzione delle società occidentali ha relegato spesso la popolazione femminile in una posizione subordinata, legata all’ambiente domestico ed alla continuità generazionale. Ancora oggi, a valle di rivoluzioni culturali che hanno portato le donne ad avere incarichi e responsabilità in molti ambiti, ed una posizione nella società almeno in teoria parificata al ruolo maschile, il segmento femminile appare sotto-rappresentato in campi specifici: l’imprenditoria – in particolare l’ambito innovativo delle start up tecnologiche – è sicuramente una di esse, seppur con interessanti segnali di cambiamento.


Diversi indicatori segnalano una posizione subalterna delle donne persino nella culla dell’imprenditoria “digitale” giovanile: secondo Dun & Bradstreet nel 2004 solo il 3% delle tech firm nate negli Stati Uniti avevano tra i fondatori una donna, ed ancora nel 2009 solo l’11% delle aziende finanziate da fondi di Venture Capital hanno un Ceo o un fondatore di sesso femminile. Persino Y-Combinator, start up accelerator “padre” di progetti popolari come Dropbox e Xobni – pur annoverando tra i propri fondatori una donna (Jessica Livingstone, al fianco di Paul Graham, Trevor Blackwell e Robert Morris) – ammette che solo 10 su 145 application ricevute nel 2011 includevano subscriber di sesso femminile. La scarsità di donne nel mondo del Venture Capital statunitense (solo l’11% tra i partner dei fondi principali) sembra indicare una possibile causa nel diffuso pregiudizio nei confronti della capacità imprenditoriale femminile, nonostante un tasso di fallimento inferiore rispetto all’“altra metà del cielo”. Solo di recente sono comparsi attori specificamente dedicati a supportare l’imprenditoria femminile, non solo attraverso programmi di incubazione/accelerazione loro dedicati – come Astia e Women Innovate Mobile – ma anche con attività pubblicistica ed organizzazione di eventi e premi – è il caso di Women 2.0, (con un premio per l’imprenditoria femminile, Pitch ed il Founders Lab), e Women in Wireless.


Il seguito di queste iniziative dimostra una grande vivacità del segmento, e del resto i dati del Census statunitense confermano un tasso di crescita doppio rispetto all’imprenditoria maschile, nel periodo 1997-2007. L’Italia, a fronte di un’occupazione in netto calo e di una mortalità imprenditoriale elevata – e nonostante una performance economica sotto la media – è al secondo posto in Europa per numero di imprese fondate da donne: la progressiva crescita del numero delle studentesse in campi come scienze ed ingegneria, unitamente ai programmi di incentivazione, unici superstiti nel sostegno all’imprenditoria giovanile, hanno portato alla positiva situazione fotografata da Confartigianato nel 2011 – con circa 4.000 nuove aziende “in rosa”.


Non inganni però la vitalità e l’intraprendenza delle nuove imprenditrici italiane: disoccupazione e tassi di inattività tuttora molto elevati, disuguaglianze tra settentrione e meridione, e la concezione tuttora diffusa della donna “angelo del focolare”, evidenziano la necessità di ripensare gli equilibri interni della famiglia, dei luoghi di lavoro, ed in ultima analisi delle città, in modi che garantiscano il coinvolgimento delle dirette interessate, sotto-rappresentate anche nel mondo della politica “che decide”, e che permettano un Work-Life Balance finalmente più equo.

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