Una legge “anti-Booking”? Indice di scarsa cultura della concorrenza in Italia. E’ questa la convinzione di Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni, che spiega i motivi nel focus “Il divieto di rate parity e la strana idea di concorrenza”.
Da un po’ di tempo, infatti, si discute la proposta di vietare che nei contratti tra agenzie online e albergatori vi sia la clausola che impegna i secondi a non praticare prezzi inferiori rispetto a quelli che compaiono nei siti dei primi. Si tratta della cd. clausola del rate parity, che garantisce ai siti di non essere semplici vetrine pubblicitarie, ma di poter concludere a buon fine la vendita delle stanze, su cui hanno una commissione che rappresenta il loro guadagno. Un emendamento in tal senso è anche stato presentato sul disegno di legge annuale della concorrenza.
“Al di là delle sue specificità, la vicenda del rate parity è paradigmatica della scarsa propensione del pensiero italiano, di cui il Parlamento è rappresentativo forse più di quanto non si voglia credere, su cosa siano la libertà contrattuale e la libera concorrenza”, spiega Sileoni.
“Il fatto che ora in Parlamento rischi di riaprirsi il dibattito, dopo che era stato accantonato l’anno scorso ma soprattutto dopo che l’Autorità garante della concorrenza è già intervenuta – conclude Sileoni – può solo considerarsi come sintomo di una scarsa consapevolezza del concetto di concorrenza, che non abbandona il legislatore nemmeno nel momento in cui è chiamato a promuoverla”.
Per Ibl dunque il divieto di rate parity sia un modo di rie-quilibrare i rapporti di forza tra operatori di mercato a vantaggio dei clienti indica ancora una volta avere un’idea piuttosto bizzarra di cosa sia la concorrenza.
Sileoni “smonta” anche la considerazione secondo cui questo tipo di intervento andrebbe a tutelare di più il consumatore. “Difficile pensare che il problema in questo caso sia del cliente finale – spiega l’economista- a lui interessa il prezzo più basso, chiunque lo pratichi. Molto spesso, gli interventi a tutela della concorrenza non guardano alla domanda, ma a specifiche categorie dell’offerta che si sentono minacciate dalla capacità di altri di offrire un servizio migliore e di fare loro concorrenza”.