Il Pd spinge sulla Google tax. In vista di giovedì 7 novembre, giorno in cui scadono gli emendamenti alla legge di Stabilità, Francesco Boccia (nella foto) presidente della commissione Bilancio della Camera punta ad inserire un emendamento che stabilisce che servizi e prodotti online possano essere acquistati, in Italia, solo da soggetti che dispongano di una partita iva italiana.
Fino ad ora le filiali italiane dei big di internet non fatturano in Italia la raccolta pubblicitaria e le vendite realizzate nel nostro paese. Gli introiti sono registrati come ricavi di servizi prestati a un’altra società del gruppo che ha sede in uno stato a fiscalità meno pesante, l’Irlanda nel caso di Facebook e Google e Lussemburgo per Amazon, il leader mondiale del commercio online. Se nel Lussemburgo l’Iva è al 15% e in Italia al 22, significa che Amazon gode di un vantaggio competitivo del 7% sui venditori italiani grazie a un meccanismo che, per ora, è regolare.
La misura non riguarderebbe solo la multinazionale di Mountain View, ovviamente, ma tutti i colossi del web che con i loro continui dribbling fiscali – perfettamente legali – sono finiti ormai da tempo sotto lo sguardo indagatore di molti Paesi europei. Nel 2012 Google Italy, che ha realizzato ricavi per un ammontare totale di 52 milioni di euro, ha pagato all’erario italiano la misera cifra di 1,8 milioni di euro, esattamente come nell’anno precedente.
La proposta è seguita molto da vicino dallo stesso premier Enrico Letta, che la considera un modo per tenere la politica fiscale al passo con i tempi, difendendo il made in Italy e costringendo le big company del Web a pagare tasse nel paese in cui operano. “Sempre meglio che continuare a ragionare su come ritoccare le accise – riassume in una battuta Boccia – Mi auguro che una norma del genere sia votata anche dall’opposizione”.
Ma non tutti, tra i democratici, sono favorevoli all’emendamento. Secondo Giorgio Santini, che della legge di Stabilità è relatore al Senato, “c’è il rischio di andare a incidere negativamente su di un settore che in Italia ha ancora bisogno di fare il salto di qualità”.
Numeri che hanno insospettito l’Agenzia delle Entrate che, in collaborazione con la Guardia di Finanza, sta passando al setaccio le strategie fiscali dei gruppi multinazionali attivi nel settore dell’elettronica e dell’e-commerce, da sempre intenti a dirottare i propri ricavi verso le proprie sedi operanti in zone a fiscalità privilegiata.
Il Pd aveva provato ad introdurre una tassazione per le big company nel ddl delega fiscale. Due gli emendamenti: la prima proposta di modifica prevedeva “l’introduzione anche in Italia, in linea con le migliori esperienze internazionali, di sistemi di tassazione delle imprese multinazionali basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale”. L’altro emendamento stabiliva che chiunque “venda campagne pubblicitarie online erogate sul territorio italiano debba avere una partita Iva italiana, ivi incluse le operazioni effettuate mediante i centri media e gli operatori terzi”.
In quell’occasione il deputato del Pd, Marco Causi, spiegava che si tratta di una “sollecitazione” ad affrontare il problema della tassazione delle attività delle multinazionali in Italia con specifico riferimento a quelle che “tra globalizzazione e digitalizzazione sfuggono all’imposizione dei Paesi dove operano”.