IL REPORT DI FREEDOM HOUSE

Libertà su Internet, nel mondo sempre più “bavagli”. La regulation è un’arma a doppio taglio

Peggioramento senza precedenti con 20 Paesi che hanno sospeso l’uso della Rete e 21 classificati “not free”. Cina maglia nera, l’Italia tra i Paesi più liberi. Le leggi pro-privacy e anti-fake news rischiano di ledere i diritti, ma l’Ue ha trovato una quadra

Pubblicato il 27 Set 2021

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Internet è sempre meno libero. Lo conclude il rapporto annuale di Freedom House (SCARICA QUI IL REPORT COMPLETO): nel 2020, per l’11mo anno consecutivo, la libertà su Internet a livello globale è diminuita. I peggiori deterioramenti del livello di libertà rilevata si sono registrati in Myanmar, Bielorussia e Uganda, dove le forze governative hanno rafforzato i controlli in concomitanza con le crisi politiche. In particolare, il calo di 14 punti di Myanmar (ora ha uno score 17) rappresenta il peggioramento più grave registrato da quando il think tank internazionale ha avviato il progetto Freedom on the Net. La Cina, con punteggio 10, resta per il settimo anno consecutivo la maglia nera delle libertà su Internet a causa del severo controllo di Pechino sull’accesso alle risorse in Rete e l’espressione del dissenso online. L’estremo opposto è Taiwan con punteggio 80.

Gli Stati Uniti hanno un punteggio di 75 ma sono in calo per il quinto anno consecutivo, soprattutto a causa della proliferazione online di informazioni false, tendenziose e manipolate su temi sensibili che vanno dalla politica alla salute. Bene l’Italia con punteggio 76 e tra gli appena 18 Paesi sui 70 studiati che il report classifica come “liberi”. Sono “parzialmente liberi” 31 Paesi, mentre 21 sono giudicati “non liberi”.

Regolare le Big tech danneggia la libertà online?

Nel 2020 sempre più numerosi i Paesi dove sono stati eseguiti arresti di utenti online per aver pacificamente espresso le loro opinioni. In 20 Paesi è stato sospeso l’uso di Internet; 21 Paesi hanno bloccato l’accesso ai social media. In 45 Stati i governi sono sospettati di aver comprato da aziende private software per accedere impropriamente ai dati dei cittadini (spyware).

Ma il grande trend rilevato dallo studio su scala mondiale è l’acuirsi dello scontro tra governi e Big tech sui temi della privacy, dei contenuti e della concorrenza di mercato. Sui 70 Paesi studiati, 48 si sono mossi o si stanno muovendo per regolare le piattaforme digitali. Se da un lato, dichiara Freedom House, si tratta di interventi necessari per combattere derive come l’hate speech, le fake news e la manipolazione del mercato, dall’altro alcuni governi fanno leva su queste esigenze per limitare la libertà di espressione online o accedere a informazioni private.  In Cina, per esempio, le società hitech sono punite non solo per pratiche monopolistiche e insufficiente protezione dei dati personali degli utenti, ma anche se non rimuovono prontamente qualunque satira contro il presidente Xi Jinping e testimonianze sulle carcerazioni arbitrarie tra la minoranza Uguri.

Gli scontri degli Stati con le piattaforme hitech sono favoriti anche dal comportamento non lineare delle stesse tech companies, afferma Freedom House. Per esempio, Facebook, Twitter e altre piattaforme social hanno disattivato l’account dell’ex presidente Donald Trump a gennaio, dopo l’assalto alla Casa Bianca, ma il loro atteggiamento verso i contenuti politici non è sempre univoco.

L’Ue come “terza via” tra Cina e Usa

L’Italia figura tra i Paesi che hanno adottato misure per regolare le aziende del digitale sia per la gestione dei dati personali sia per il controllo sui contenuti sia per difendere la concorrenza. Il report premia le normative approvate in ambito Ue affermando che il quadro regolatorio dell’Unione europea per Internet potrebbe offrire “una terza via” tra l’autoritarismo digitale della Cina e la tradizionale enfasi degli Stati Uniti sulla libertà totale di espressione e di mercato.

Il Digital services act e il Digital markets act dell’Ue possono rappresentare un modello positivo per regolare il settore tecnologico, ma occorre saper evitare le ripercussioni negative sulla libertà online in mercati specifici, come il giornalismo investigativo e i contenuti Lgbt+.

Allo stesso modo il report premia gli approcci che si ispirano alla General data protection regulation (Gdpr) europea, ma sottolinea come alcuni Paesi abbiano deviato dallo spirito pro-privacy europeo per limitare lo scambio di dati con l’estero e esentare il governo dalle regole per fini di sorveglianza.

La censura e la sorveglianza in Cina

La sorveglianza di Stato è un altro tema al centro del report di Freedom House. Spesso, nota lo studio, la sovranità sui dati diventa una giustificazione per intrusioni ingiustificate nella vita personale. Il report riporta casi in Vietnam (score 22), Arabia Saudita (24), Pakistan (25) e Egitto (26).

Ma è la Cina il più grande “Stato di sorveglianza” mondiale. La legge sulla cybersicurezza in vigore dal 2017 obbliga le aziende a conservare i dati dei loro utenti su server locali e a decrittare i dati dietro richiesta delle autorità. Per Freedom House leggi “vaghe” permettono al governo cinese di controllare la popolazione in merito a una lunga serie di attività (come il giornalismo indipendente e la difesa dei diritti umani) e espressione di idee (politiche, sociali, religiose) considerate nemiche del Partito unico. Tra i temi oggi fortemente censurati in Cina c’è anche il Covid-19.

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