VERSO IL CONSIGLIO UE

Liscia a Letta: “Puntiamo su un Ice del digitale”

Il presidente di Netcomm chiede al governo di spingere di più sul commercio elettronico: “Le Pmi italiane sono in ritardo. Servono un grande piano di alfabetizzazione e strumenti di defiscalizzazione”

Pubblicato il 18 Ott 2013

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All’Italia serve un grande progetto di cultura digitale. Roberto Liscia, presidente di Netcomm, spiega al Corriere delle Comunicazioni quali istanze il governo Letta deve metter sul tavolo del prossimo Consiglio europeo – il 24 e 25 ottobre – il primo dedicato all’e-economy.

Alfabetizzare cittadini e imprese costa. Dove si potrebbero attingere le risorse?

Dai fondi europei. L’Italia è tra i maggior contributori europei quindi non credo avrebbe problemi a chiedere risorse per un grande piano di acculturazione. Ma cerchiamo di essere chiari: non si tratta solo di “insegnare” ad utilizzare le nuove tecnologie ma soprattutto, sul versante delle imprese, a fare in modo che quelle tecnologie diventino leva di competitività e volano per il rilancio delle reti di impresa. Reti di impresa che, in passato, hanno permesso alla nostra economia di crescere e di diventare uno dei più importanti paesi esportatori. È tempo di scommettere sui distretti digitali.

Fattivamente come si può facilitare la creazione di questi distretti?

Per prima cosa bisogna supportare l’export online il made in Italy, studiando strumenti adeguati di defiscalizzazione. Il nostro Paese è indietro rispetto al resto d’Europa. Sommando il fatturato dell’e-commerce dei primi 30 gruppi europei tradizionali come ad esempio Tesco, escludendo i player “pure internet” alla Amazon, si arriva ad una somma quattro volte superiore a quello dell’Italia. Le aziende europee hanno grandi dimensioni e hanno investito in innovazione. Le imprese italiane, invece, sono per lo più Pmi con scarsa propensione all’adozione di nuove tecnologie e di nuovi canali di vendita.

Basta la defiscalizzazione?

Solo se accompagnata da adeguate strategie di promozione del made in Italy online. In mente ho la creazione di un’”Ice digitale”, un Istituto per il commercio estero dedicato al commercio elettronico, che faccia da collettore tra le nostre aziende innovative e i Paesi interessati ad importare. Il modello è quello di Ubi France.

Ma per spingere l’export online e il commercio elettronico in generale, servono investimenti sulle reti. E sulla banda larga l’Italia è in ritardo rispetto al resto del Continente.

Ovviamente servono investimenti sulle reti veloci. A questo proposito trovo sterile la polemica sull’italianità della rete sollevata dopo l’operazione Telefonica su Telco. L’importante non è la nazionalità di chi investe, ma il fatto che gli investimenti vengano fatti.

Il commercio elettronico italiano soffre anche per la concorrenza dei grandi player Usa, come Amazon. A questo proposito, lei come valuta possibili strategie a sostegno delle imprese europee che la Francia ha intenzione di proporre proprio al Consiglio Ue?

Guardi, bisogna distinguere i piani. Il ritardo delle imprese europee è legato al fatto che in Europa non si riescono a strutturare poli competitivi e la colpa non è certo degli Ott, ma del nostro mercato. Quindi direi che, prima di optare per strategie anti-Ott, sarebbe il caso di riflettere sul perché l’Europa sul digitale non è competitiva. Per quanto riguarda invece il fatto che le web company spesso bypassano il fisco nazionale, credo sia utile trovare forme di controllo che non scadono, però, nel protezionismo.

Il governo Letta andrà al Consiglio europeo anche per presentare il piano Caio sull’Agenda digitale. Tre progetti – anagrafe unica, identità digitale a fatturazione elettronica – per agganciare gli obiettivi di Eu2020. La convince questa strategia?

Sono certamente progetti abilitanti alla creazione dell’Italia digitale. Ma, a mio avviso, funzionerebbero di più se accompagnati da uno sforzo di sburocratizzazione e alleggerimento delle norme che regolano il funzionamento della PA.

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