Di solito, quando si cita l’ormai onnipresente espressione ‘digital disruption’, si parla solo del lato buono della trasformazione culturale, tecnologica e operativa a cui sono chiamate le imprese. D’accordo: c’è sempre il sottotesto della concorrenza globale, che ormai può stravolgere modelli di business consolidati arrivando anche da competitor attivi in settori fino a pochi mesi prima non sospetti. Ma tendenzialmente i grandi vendor tecnologici guardano – o sembrano guardare – all’innovazione con lo stesso ottimismo delle startup: gli insight estratti dall’analisi dei dati e l’automazione aiuteranno senza e senza ma le organizzazioni a generare risparmi, aumentare l’efficienza, soddisfare meglio i propri clienti.
Pochissimi parlano invece dell’inevitabile trauma che comporta il cambiamento, delle scelte difficili (e a volte incomprensibili per il mercato) ma necessarie, delle rinunce e dei molti salti nel buio che aspettano le aziende disposte a evolvere. Meg Whitman, Ceo di Hpe e artefice lei stessa di una di una delle più grandi trasformazioni di business mai affrontata da una multinazionale, ha il coraggio di parlarne proprio perché ha vissuto sulla propria pelle questo trauma. “La disruption porta con sé al tempo stesso opportunità e cose spaventose (scary, ndr), e questo fa sì che oggi il futuro appartenga a chi è più rapido nel reagire. La vecchia HP, con le sue sette linee di business e i suoi 400 mila dipendenti, era troppo grande e troppo poco agile per affrontare lo scenario che si stava delineando”.
Parlando dal palco di Hpe ReImagine, che si è tenuto ieri a Bologna come appuntamento conclusivo di una due giorni che ha accorpato la tappa tricolore del roadshow europeo di Hpe con l’Italian Summit (evento annuale dedicato a partner e system integrator), la Whitman ha puntualizzato la strategia mondiale del gruppo, ripercorrendo le pietre miliari degli spin off e delle cessioni (l’ultima, dopo la divisione Servizi, è stata quella Software) che hanno snellito e concentrato la multinazionale. “Ora, dopo il processo che ci ha portato a focalizzarci sull’infrastruttura e sul computing di nuova generazione, non abbiamo più alibi, non possiamo nasconderci dietro a nulla. La disruption? Continua a essere una potenziale minaccia, ma in Silicon Valley ho un team di 12 persone che non fanno altro che monitorare le nuove startup per cogliere le opportunità emergenti del mercato”.
Gli addetti ai lavori sanno che non è cosa di tutti i giorni ascoltare un keynote di Meg Whitman dal vivo, e ad accoglierla a Bologna c’era un emozionato Stefano Venturi, Corporate Vice President e Amministratore delegato di Hpe in Italia. Venturi, oltre ribadire la declinazione della filosofia del gruppo sul piano nazionale (“siamo convinti che il mercato premierà chi riuscirà a generare valore attraverso la specializzazione e l’apertura alle implementazioni dell’ecosistema e non chi, proponendo soluzioni monolitiche, soddisferà solo una piccola porzione della domanda”), ha anche sottolineato l’importanza strategica dei 19 (15 già inaugurati) Innovation Lab che Hpe, in tandem con 15 system integrator e quattro distributori, sta creando sul territorio italiano. “Un investimento congiunto che sta dando vita non a semplici demo-room, ma a veri e propri punti di aggregazione tra imprese, sviluppatori e fornitori di tecnologia, tanto è vero che godiamo dell’appoggio di associazioni di categoria e istituzioni locali”.
L’obiettivo dichiarato di Venturi è far sì che le strutture siano a tutti gli effetti riconosciute, secondo i dettami del piano Calenda per l’Industry 4.0, come Innovation Hub, superando quindi la logica pura del marketing e delle partnership. Al momento, solo l’Innovation Lab di Bari è stato incluso nella mappa, ma a breve dovrebbe essere ammesso anche il centro di Parma. “Vogliamo sperimentare e lavorare insieme a tutti i soggetti che puntano all’innovazione, è l’unico modo per creare valore e sfuggire al rischio di trasformare la tecnologia in pura commodity”, ha detto Venturi rivolgendosi ai partner di canale. “Questo implica anche elevare il livello della conversazione e lasciare i clienti liberi di scegliere ciascuno strato delle soluzioni. Il lavoro in partnership sarà dunque fondamentale, e vi chiederemo di fare investimenti in know how, se necessario puntando un po’ meno al volume”.
A proposito di Industry 4.0 e Internet of Things, sul piano dell’R&D il focus di Hpe sarà sempre più allineato al tema dell’edge computing, con l’obiettivo di portare l’intelligenza ottenuta dall’analisi dei dati il più possibile vicino ai luoghi in cui si realizza il business e non solo: impianti produttivi, uffici, ma anche automobili e navi, che ormai ospitano a bordo veri e propri data center in miniatura che si fanno carico di gestire automazione e sicurezza. “Siamo solo all’inizio dell’era dei Big data”, ha continuato Venturi, “e i server saranno dappertutto, con un numero di macchine dedicate al Cloud che sarà sempre minore di quelle installate on premise, considerando anche il fatto che assisteremo alla comparsa di microserver e nanoserver, montati per esempio pure sui sensori”.
L’altro grande pilastro della strategia di Hpe è in effetti l’approccio hybrid, che conferirà l’agilità di cui hanno bisogno le piattaforme per gestire dati e applicazioni a cavallo di data center locali e strutture in colocation nel Cloud pubblico. Il fil rouge che lega i due orizzonti è il tentativo di sovvertire la logica con cui funzionano attualmente le macchine, passando da computer il cui fulcro è la Cpu (i cui limiti computazionali sono ormai stati raggiunti) a macchine basate sulla memoria, rispetto a cui i processori serviranno semplicemente per orchestrare gli accessi in real time – attraverso interconnessioni ottiche ed elettroniche – a quantità sconfinate di dati. È il principio che guida il gruppo di lavoro che in HPE sta sviluppando The machine, un prototipo di computer di nuova generazione che, come ha spiegato Paolo Faraboschi, Fellow and VP HP Labs, sta già abilitando sperimentazioni, modelli e proof of concept in ambito sanitario come nel settore finanziario. Tutta la parte tecnologica sta venendo implementata e integrata soprattutto grazie alle acquisizioni recenti di Hpe (che hanno fatto da contrappeso alle cessioni del gruppo: da Niara a SGI, passando per Simplivity, Cloud Cruiser e Nimble Storage) e all’imprescindibile partnership con Intel, che sposando la prospettiva di Meg Whitman presenterà nel corso del 2017 la nuova generazione di processori Xeon.
La terza colonna su cui poggia la nuova Hpe è l’attività consulenziale, racchiusa nella divisione Pointnext, un gruppo di lavoro che come suggerisce il nome ha il compito di aiutare le aziende a puntare lo sguardo verso ciò che sta per arrivare. Ma a prescindere dalla capacità di osservare il futuro e comprendere quale sarà il next step, chiunque voglia cimentarsi nel cambiamento deve essere consapevole che non sarà semplice, e che nonostante il supporto fornito dalla tecnologia, occorrerà prima di ogni altra cosa guardare in faccia il vero volto della disruption, senza vergognarsi di averne paura: dopotutto, se persino una iron lady come Meg Whitman ammette che la sfida è durissima, noi comuni mortali possiamo sentirci sollevati quando, di fronte alle opportunità e alle cose spaventose che offre i digitale, ci sentiremo un po’ disorientati.