SENTIERI DEL VIDEO

Meglio studiare Sky che le mummie dei reality

L’università italiana e la ricerca farebbero bene a studiare il modello della tv satellitare piuttosto che le narrazioni buoniste della tv del monopolio o il “museo delle cere” costruito sulle rovine del reality show

Pubblicato il 20 Feb 2012

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Ho partecipato alla presentazione dell’annuale rapporto della Fondazione Rosselli sull’industria della comunicazione in Italia e lì ho appreso la notizia che il fatturato di Sky ha superato anche quello della Rai, dopo avere superato Mediaset (già nel 2008-9), e dunque l’azienda di Rupert Murdoch è oggi la più grande fornitrice (o aggregatrice?) di contenuti nel nostro paese.
Nella mia ingenuità perdurante, nonostante l’età avanzata, ritenevo che si trattasse di una notizia rilevante, non dico da prima pagina ma insomma, degna di qualche titolone sui giornali; ma le vicende accademiche della figlia della ministra Fornero fanno più notizia sui blog, sui social network e sui quotidiani di carta. Continuo a ritenere questa una notizia storica per molti motivi.


Vorrei intanto ricordare che Mediaset, quando ancora si chiamava Fininvest, cercò ad ogni costo di non superare la Rai come dimensione d’azienda (anche se dal 1984 la sua concessionaria Publitalia aveva superato la Sipra-Rai). Dopo aver raggiunto l’attuale struttura a tre reti, avrebbe potuto comprare per un boccon di pane Euro TV da Callisto Tanzi, ma evitò di farlo per non alterare quello che ormai era un equilibrio duopolistico. Queste preoccupazioni da prima repubblica, transitate nella seconda, sono ormai polverizzate nell’era della globalizzazione.


La seconda osservazione è che a questo gigantesco fatturato di Sky si accompagna una audience a una cifra. Vogliamo dire il 5%? Diciamolo pure. La fonte di revenue più importante di Sky sono i pagamenti degli utenti (utenti top), non la pubblicità: dunque registriamo uno spostamento del sistema televisivo dal consueto generalismo mainstream del collaudato duopolio a una coltivazione in serra delle nicchie più promettenti del pubblico, anzi dei pubblici, opportunamente segmentati.


Infine, la più grande impresa culturale del paese (dobbiamo iniziare a definire così Sky) è più una aggregatrice che una produttrice di contenuti. È come un fabbricante di automobili che assembli nel nostro paese componenti e parti prodotte in luoghi lontanissimi: nel nostro caso, parti che sono già state usate egregiamente altrove da aggregatori collegati alla stessa impresa multinazionale. Il particolare “sapore” di una televisione italiana rispetto ad una slovacca o pakistana viene prodotto attraverso pochi sapienti tocchi. Quali? L’università italiana e la ricerca farebbero bene a studiare queste cose attuali, e non limitarsi ai “mitici anni sessanta”, alle narrazioni oleografiche e buoniste della tv del monopolio, o al museo delle cere costruito sulle rovine del reality show.

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