il caso

Meta, indagati due ex manager per frode fiscale in Italia: evasione da 877 milioni



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La procura di Milano chiude le indagini relative al periodo 2015-2021. Profitti con i dati degli utenti senza alcun consenso e omesse dichiarazioni. L’azienda si dice in “forte disaccordo sull’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva”

Pubblicato il 10 dic 2024



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La Procura di Milano ha chiuso una inchiesta che per la prima volta in Italia affronta il tema del peso finanziario e fiscale dei dati degli utenti sui social network. Dalle indagini è scaturita un’ipotesi nei confronti di due manager di Meta, con al centro delle accuse l’omessa dichiarazione e il mancato pagamento tra il 2015 e il 2021 dell’Iva per un totale di oltre 877 milioni di euro.

Questa, per lo meno, è la ricostruzione dei pm Giovanna Cavalleri, Giovanni Polizzi, Cristian Barilli, titolari del fascicolo a carico di Gareth Lambe e di Maria Begona Fallon Farrugia, due director del gruppo in Italia: il primo dal 2015 al 2018 e l’altra dal 2019 al 2021.

Allo stato attuale la società non è indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. L’inchiesta riguarda l’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati forniti dagli utenti in fase di attivazione degli account senza che gli stessi siano stati informati adeguatamente e anzi enfatizzando la gratuità del servizio.

La tesi dell’accusa

In base agli accertamenti – inizialmente disposti dalla Procura europea e poi, per una questione di competenza, coordinati dai pubblici ministeri milanesi e affidati, nel 2023, al Nucleo di Polizia Economico Finanziario della Gdf in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate – Meta Platforms Ireland Limited, già Facebook Ireland Ltd, attraverso Facebook e Instagram, avrebbe offerto “servizi digitali agli utenti” italiani “in cambio dell’acquisizione e gestione per fini commerciali dei dati personali” di ciascuno e “delle informazioni inerenti relative interazioni sulle piattaforme”. In sostanza, si ritiene ci sia una permuta tra beni differenti e che, in quanto tale, debba essere soggetta all’Iva e quindi vada tassata.

Invece i rappresentanti di Meta, per “evadere l’imposta”, non avrebbero presentato “le dichiarazioni relative” a sette anni. A riprova di ciò, nel capo di imputazione, vengono valorizzate due tabelle, tra cui uno “schema di sintesi” che spiega come “il valore economico dei servizi digitali offerti dalla società” vada individuato in funzione “delle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi” stessi. Nella prima tabella viene indicato, per esempio, che solo nel 2021 Meta ha realizzato oltre un miliardo di euro di ricavi in Italia. E che su una base imponibile di quasi 4 miliardi di euro, tra 2015 e 2021, l’imposta sul valore aggiunto (il 22%) evasa in totale è di oltre 877 milioni. Inoltre si evince che la presunta frode è passata dagli oltre 48 milioni di euro del 2015 agli oltre 221 milioni del 2021.

Come ha sottolineato in una nota il procuratore di Milano Marcello Viola, “la natura non gratuita dei servizi offerti” negli anni passati è “già stata affermata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal Tar del Lazio, oltre che da autorevole dottrina, e ha trovato riscontro nelle attività ispettive della Guardia di Finanza, negli atti dell’Agenzia delle Entrate e infine nelle risultanze dell’indagine penale”.

La risposta di Meta

Non è così per la società di Mark Zuckerberg. “Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva“, ha spiegato un portavoce di Meta. “Abbiamo collaborato pienamente con le autorità rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale e continueremo a farlo. Prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo”.

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