L'INTERVISTA

Mizzi: “Così rispondiamo alla fame di start up”

Parla l’ideatore e responsabile di Working Capital (Telecom Italia): “Adottiamo
il modello Rainforest: una foresta pluviale dove si sviluppano talenti, idee, capitali, trust”

Pubblicato il 23 Mag 2013

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Tre acceleratori appena inaugurati a Milano, Roma e Catania e altri due in programma entro la fine dell’anno. L’iscrizione d’ufficio all’albo dei fornitori certificati per le start up selezionate a partire dal 2009. Un budget a sei zeri voluto dall’amministratore delegato per incentivare i reparti interni a utilizzarle. Ma che cosa sta succedendo in Telecom Italia? “Stiamo producendo innovazione”, risponde serafico Salvo Mizzi, ideatore e responsabile di Working Capital, pioniere italiano di Internet, ex startupper (sua era la prima tv su Internet a inizio secolo, My-Tv) e membro della Kauffman Society, la più importante fondazione americana sulla nuova imprenditoria, con una fellowship incentrata proprio sul progetto della compagnia telefonica a sostegno delle start up (19 già incubate e finanziate, 36 pre-incubate). Le tensioni sull’assetto proprietario e le preoccupazioni sul futuro sembrano davvero lontani da queste parti. Telecom Italia sta per diventare il più diffuso acceleratore di imprenditorialità innovativa. Quest’anno verranno assegnati 30 grant di impresa da 25mila euro ciascuno, rispetto ai 20 dello scorso anno. E ci sono anche circa 30 startup da accogliere e curare.
Mizzi, perché tre incubatori?
Per quanto si diffonda l’uso del web, resta il bisogno di incontrarsi, di essere una community. Non a caso abbiamo sposato l’iniziativa del Barcamper di Gianluca Dettori (che con la sua Dpixel gestisce l’incubatore di Milano) con cui copriremo 20 città entro fine anno. È come se fosse un quarto acceleratore, in mobilità. Quello di Roma è gestito da Fabio Lalli, founder di Indigeni Digitali, e quello di Catania da Antonio Perdichizzi, presidente dei giovani di Confindustria della città. Inizialmente per ciascun acceleratore prevediamo dieci start up. Ma presto ci potrebbero essere novità. Dobbiamo trovare il modo di dare risposte al gran numero di richieste che stiamo ricevendo.
Che cosa è cambiato da quando avete cominciato?
Nella prima decade di questo secolo innovazione e start up erano temi da addetti ai lavori e il canone era quello classico del venture capital prima maniera. Il boom degli incubatori è un fatto recente, come il concetto di accelerazione, che adesso è dominante negli Usa per rispondere all’esigenza di produrre innovazione in tempi rapidi e con costi competitivi a livello globale. È il modello Rainforest di Horowitt, una “foresta pluviale” dove si sviluppano talenti, idee, capitali, trust.
Cosa c’entra la fiducia?
Produrre innovazione è possibile quando riesci a minimizzare i transaction cost, e non solo quelli finanziari. Se non mi fido, i costi aumentano. L’Albo Veloce istituito da Telecom Italia va nella direzione di semplificare le relazioni: ci fidiamo dei soggetti che acceleriamo o premiamo. Siamo i primi in Italia e in Europa a farlo, forse al mondo.
Come funziona il basket dell’innovazione?
Dal 19 aprile, data di apertura degli acceleratori, l’Ad ha voluto un budget rivolto all’interno per incentivare l’innovazione. Le business unit che “compreranno” le soluzioni innovative proposte dalle start up avranno un vantaggio tangibile. L’abbattimento dei transaction cost qui è clamoroso: in collaborazione con Paolo Vantellini, direttore Business Support e Purchasing, è stato quantificato fino a un massimo di 100mila euro per contratto. È un sistema che come cittadino mi piacerebbe vedere utilizzato nella PA. Basterebbe per vedere realizzata una parte consistente dell’Agenda digitale che invece langue.
In Italia mancano i capitali coraggiosi. Luogo comune o verità?
Entrambi. Che la percentuale di investimenti in venture capital sul pil sia minima è noto. Ma c’è un miglioramento in atto. Alcuni fondi cominciano ad avere dimensioni accettabili, ci sono molti più soggetti anche se ancora piccoli, c’è qualche fondo pubblico. Ma non basta. C’è da coprire almeno il terreno che ci separa dalla Francia: che significa avere dieci volte quello che c’è adesso.
E come si fa?
Con l’Europa, in primis. Con un Fondo dei fondi, che non si riesce a far decollare. Con i fatti. Se, ad esempio, la PA comincia a fare scelte chiare, allora il grande investitore, nazionale o internazionale, ti segue. Siamo ancora un grande Paese manifatturiero, ma serve una convinta proiezione internazionale con un made in Italy più completo e contemporaneo, che non può fare a meno dell’innovazione.
Possiamo esportare anche innovazione?
Pensare globale non è un’opportunità ma una necessità. Non puoi fare start up che puntino a dominare il proprio quartiere. Serve maggiore ambizione. Noi da aprile, in partnership con la Kauffman, abbiamo aperto il repository di Working Capital (circa 4mila business plan) ai fellow e ad alcuni investitori internazionali e vogliamo farlo presto con altri soggetti.
Su quali fronti state lavorando?
Ci sono diversi tavoli. In Cina di recente ho trovato un grande interesse da parte del governo e di alcune grandi metropoli. È un canale che stiamo approfondendo e in novembre porteremo le nostre migliori start up al forum intergovernativo di Pechino. Altri approfondimenti sono in corso anche con il mondo arabo, grazie al nostro Fellow Abdulaziz Alhargan, entrato da qualche mese nel Parlamento Saudita come digital champion.
Se potesse esprimere cinque desideri al nuovo genio della lampada che si è insediato a Palazzo Chigi, che cosa chiederebbe?
1. Definire una volta per tutte che la rivoluzione digitale non è un gioco per tecnofili ma un ripensamento profondo del nostro sistema produttivo. 2. Avere un premier che si assuma la responsabilità diretta delle opportunità di crescita generate dalla rivoluzione digitale. 3. Introdurre elementi di discontinuità nella gestione della PA. 4. Trovare qualcuno che riesca a moltiplicare x 10 i capitali di rischio. 5. Introdurre anche in Italia gli start up visa. Oggi non è necessario attrarre solo capitali, ma anche talenti. C’è riuscito il Cile, forse anche noi possiamo provarci.

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