5 miliardi di dollari. Tanto ha chiesto Hp a Mick Lynch – un tempo considerato la versione inglese di Bill Gates – come danno nell’acquisizione di Autonomy. Oggi all’Alta Corte di Londra il fondatore di Autonomy è stato audito su una vicenda che va avanti ormai da sei anni e che secondo quanto si apprende dovrebbe arrivare a verdetto non prima della fine del 2019.
Sul tavolo dell’accusa il disastroso “affare” Autonomy, costato miliardi di dollari agli azionisti della Silicon Valley. Secondo Hp Lynch e l’ex collega Sushovan Hussain, avrebbero gonfiato il valore di Autonomy prima di vendere la società di big data. Accuse rimandate al mittente da Lynch secondo il quale la fallimentare acquisizione da 11 miliardi di dollari fu dovuta alla cattiva gestione da parte di Hp. Autonomy doveva essere il fulcro di un piano per trasformare Hp da pc company e produttore di stampanti in un’azienda di servizi focalizzata sul software, un cambiamento intrapreso con successo da Ibm nei due decenni precedenti.
La vicenda Lynch si è aperta meno di un anno dopo dall’acquisizione, ossia nel 2012 quando il manager fu silurato dall’allora ceo Meg Whitman dopo che Hp denunciò di aver scoperto “gravi scorrettezze contabili” che avevano gonfiato il valore di Autonomy. La posta in gioco della controversia si è inoltre intensificata lo scorso mese di novembre quando Lynch e Stephen Chamberlain, un altro ex dirigente dell’Autonomy, sono stati incriminati per frode telematica negli Stati Uniti, un’accusa che prevede una pena fino a 20 anni di reclusione. L’imputazione aggiunge dunque accuse contro entrambi i manager, comprese una serie di frodi che potrebbero far lievitare a 25 anni l’eventuale pena detentiva a carico di Lynch. La difesa di Lynch si prepara però a smentire tutte le accuse e a rincarare la dose contro Hp, che secondo i legali avrebbe danneggiato e starebbe continuando a danneggiare la reputazione del manager.