“I giochi sono finiti”: con questo slogan l’Ocse presenta il proprio piano, messo a punto d’intesa con il G20 e oltre 60 Paesi partner, per chiudere ogni “scappatoia legale” che ha finora consentito, tra gli altri, ai big della digital economy, da Google a Apple, ma anche a società multinazionali come Starbucks e Mc Donald’s, di mettere in pratica la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, ovvero di dichiarare i loro utili in giurisdizioni che offrono tasse molto basse pur mantenendo altrove le proprie attività produttive. Tale pratica, sottolinea l’Organizzazione per la coesione e lo sviluppo economico, ha un costo stimato per difetto tra i 100 miliardi e i 240 miliardi di dollari all’anno per i Paesi al cui erario queste aziende riescono a sfuggire.
Le misure dell’Ocse sono raccolte in un piano composto da 15 azioni per contrastare ottimizzazione ed elusione fiscale. Oltre ai sette punti già concordati nel 2014, tra cui un capitolo sull’economia digitale, il pacchetto comprende misure contro trasferimenti finanziari fittizi, indebite deduzioni di interessi e filiali fantasma, e un sistema di monitoraggio dei risultati.
La lista pubblicata oggi è l’ultimo atto di una vicenda nata nel 2012, quando i Paesi del G20 avevano chiesto all’Ocse di occuparsi della questione, e fin dall’inizio le multinazionali avevano dato la loro disponibilità ad adeguarsi ai principi guida che l’organizzazione avrebbe stilato su un argomento che ha già creato diverse frizioni sia in Europa sia negli Stati Uniti.
“Il mondo delle tasse non sarà più lo stesso da questo momento – ha detto presentando le proposte Pascal Sint-Amans (nella foto), a capo delle “tax policy” nell’Ocse – stiamo entrando in una nuova era in cui finirà la pianificazione fiscale e l’elusione fiscale su larga scala: sfuggire sarà molto più difficile e costoso – ha aggiunto – e il ‘profit shifting’ sarà considerato non più ‘elusione’, ma vera e propria evasione fiscale”.
Il passo successivo a questo punto sarà capire come queste regole dovranno essere recepite dai singoli Paesi: a sottolinearlo è tra gli altri un portavoce della “Confederation of british industries”, secondo cui “i cambiamenti dovranno entrare in vigore con la stessa tabella di marcia in tutti gli Stati, per evitare che nascano vantaggi competitivi per alcune aziende”.
Il Governo italiano, all’interno di questo campo di gioco, ha scelto di muoversi in sintonia con gli altri Paesi europei e di non prendere iniziative unilaterali. Anche per questo non avrebbero avuto seguito finora le proposte di “digital tax” avanzate fino a questo momento da alcuni parlamentari. L’obiettivo è di non dare vita a regole che possano prestarsi a essere percepite come “tasse sull’innovazione”, ma di allinearsi a un sistema internazionale a cui gli stessi big della digital economy dovranno dismostrare di essere disposti ad adeguarsi, come avevano già a più riprese annunciato.
Quello delle regole che governano la tassazione sui profitti che derivano dal commercio internazionale è un “tema caldo” di cui effettivamente si dibatte da più di un secolo, ma che ha avuto un’accelerazione drastica con la globalizzazione e la digital economy, da quando cioè è stato possibile “spostare” i guadagni fuori dai confini nazionali dei Paesi in cui vengono effettivamente realizzati in altri, dal Lussemburgo alle Bermuda, in cui non vengono tassati. Nell’occhio del ciclone sono finiti durante gli ultimi anni i giganti tecnologici, che si sono guadagnati la fama di “campioni” nel trovare le scappatoie fiscali, anche se il caso ha interessato anche banche, fast food, e venditori al dettaglio. Il sistema che generalmente si sceglie per l’elusione è quello di operare transazioni tra società affiliate, per ridurre l’entità dei guadagni tassabili nei luoghi dove si trovano i consumatori o le strutture, e accrescerla dove le condizioni fiscali sono più favorevoli, ma dove le aziende hanno una presenza minima, “di comodo”.
Una delle principali raccomandazioni messe a punto dall’Ocse è quella di cambiare le norme che consentono alle società di fare vendite da miliardi di dollari in un Paese senza avervi stabilito una “residenza fiscale”, grazie a contratti di vendita con società che hanno sede in paradisi fiscali. Un meccanismo che, secondo un’inchiesta di Reuters, nel 2013 sarebbe stato utilizzato dal 74% delle più importanti aziende tecnologiche degli Usa. Secondo le raccomandazioni dell’Ocse, quindi, i guadagni dovranno “rimanere” nelle filiali delle aziende dove vengono effettuate le vendite agli utenti finali.
Sul cosiddetto “transfer pricing”, l’applicazione cioè di di prezzi di trasferimento non a valore di mercato tra società che hanno sede in Paesi diversi, l’Ocse prescrive nel programma Beps (Base erosion and profit shifting) che venga introdotta una documentazione dettagliata Paese per Paese per limitare le pratiche aggressive in questo campo: la proposta è che diventi obbligatorio per le multinazionali con volume d’affari consolidato superiore ai 750 milioni di dollari di documentare attività, ricavi e imposte versate in tutti i Paesi in cui sono presenti.
Perché le nuove regole vadano a regime, in ogni caso, anche se ogni singolo Paese potrà dare vita a iniziative unilaterali, sarà nella maggior parte dei casi necessario rivedere i termini dei trattati internazionali tra Paese e Paese. Per evitare un percorso tanto complesso e accidentato, l’Ocse continuerà a lavorare a un meccanismo “automatico” che consenta di aggiornare secondo i nuovi principi le norme in vigore nei vari trattati, ma per riuscirci potrebbe essere necessario tutto il 2016.
L’Ecofin in programma domani, intanto, potrebbe varare un progetto di legge per lo scambio automatico di informazioni sugli accordi fiscali concessi dai governi alle multinazionali, proprio come previsto dall’Azione 5 del pacchetto Beps, sulla neutralizzazione degli effetti di accordi fra multinazionali e Paesi che abbiamo come conseguenza “regimi preferenziali”, quindi benefici eccessivi.
Il percorso tracciato dall’Ocse, quindi, potrebbe richiedere ancora anni prima di entrare a regime, ma Saint-Amans ha detto di confidare nel fatto che le grandi aziende, da Starbucks ad Amazon, starebbero già sviluppando le proprie mosse per adeguarsi ai precetti dell’Ocse.