Che fine ha fatto la Trasparenza totale? Dopo due anni dall’entrata in vigore del d.lgs 97/2016, questo nuovo abito dell’amministrazione italiana esiste sulla carta e nella dottrina ma ancora troppo poco nella vita quotidiana. In un’intervista che di recente mi ha concesso, il ministro per la PA Giulia Bongiorno definisce il Foia italiano (Freedom of informaction act) “una bellissima idea”. E in effetti, come altro si può definire una normativa che adegua l’Italia ai paesi anglosassoni e permette ad ogni cittadino di chiedere alle amministrazioni, senza dover dare spiegazioni, “qualsiasi atto o documento”, salvo eccezioni catalogate? E che gli dà anche il diritto di ricevere la risposta entro 30 giorni, con il dovere della pa di motivare un eventuale rigetto?
Però il ministro Bongiorno aggiunge che “una legge che vuole avvicinare il cittadino alla PA e che però non è conosciuta dal cittadino non ha raggiunto il suo scopo”. Finora, in effetti, alla macchina della Trasparenza totale sono mancati due elementi fondamentali: la direzione di marcia e il carburante. Riguardo alla direzione di marcia, bisogna chiedersi: perché io cittadino dovrei esigere questo o quel documento? Semplice: per controllare la qualità dei servizi. Se, ad esempio, voglio sapere perché mio figlio non è entrato in una graduatoria per gli asili nido, oggi posso pretendere i documenti che mi spiegano quali sono stati i criteri e se vi sono altre possibilità. La trasparenza è quindi una formidabile possibilità di conoscere le attività pubbliche, partecipare alla loro attuazione, intervenire con proposte migliorative. Del resto, la stessa Autorità nazionale anticorruzione, superando brillantemente il limite della sua denominazione, ha statuito che il Foia punta in primo luogo alla partecipazione civica, e solo in secondo a prevenire le illegalità. Quindi, ogni sforzo va orientato verso una dimensione dell’accesso civico generalizzato calibrato sulla qualità dei servizi pubblici, e non più rinchiuso nella gabbia poliziesca dell’audit anticorruzione. Per questo, la coincidenza automatica fra le funzioni di responsabile anticorruzione e trasparenza, e la fusione delle misure in un unico piano, meritano una revisione.
Ma oltre alla direzione di marcia, occorre il carburante della comunicazione. La trasparenza, per essere “vissuta” dai cittadini come un’opportunità concreta e praticabile, deve uscire dall’anticamera della burocrazia adempitiva, che insegue solo la correttezza formale: dati sul sito, piani entro il 31 gennaio, uffici e caselle negli organigrammi. La legge non è ancora abbastanza conosciuta dai cittadini né assimilata dalle amministrazioni anche perché le funzioni comunicative sono oggi la cenerentola dell’azione pubblica. Non a caso, il nuovo ministro Giulia Bongiorno vuole rilanciarle mettendo mano alla vetusta legge 150/2000, nata quando ancora il web era agli albori, infarcita di prescrizioni quasi didattiche (“illustrare le leggi ai cittadini”) e fondata su una separazione ormai improponibile fra le professionalità dei giornalisti e dei comunicatori. Molto possono fare i social media. Ormai le pubbliche amministrazioni sono quasi tutte sui social, e spesso vi fanno un ottimo lavoro. Bene, con i social si può spesso ottenere un’informazione o un documento in modo molto più diretto che con le procedure del Foia, e persino in tempo reale. E’ una novità che può davvero rendere la trasparenza un’abitudine, una mentalità. Non a caso, su impulso dell’Associazione PA Social il prossimo 20 marzo a Roma, nella sede dell’Agcom, parte la campagna per la “legge 151”, cioè una nuova organizzazione della comunicazione al cittadino. Del resto, più si danno al cittadino dei diritti, più c’è bisogno di professionisti che sappiano coinvolgerli, rilevarne il gradimento e anche assisterli nella concreta gestione di questi diritti.