Vive e lavora a Parigi nel suo ruolo di vice segretario generale e
chief economist dell’Ocse, ma l’Italia non l’ha certo
dimenticata. Il sole, i colori e anche la cucina: “Le ostriche
sono ottime, per carità, ma non hanno bisogno di essere
cucinate!”, scherza Pier Carlo Padoan quando lo
incontriamo a Roma dove è tornato per una breve visita di lavoro.
La prima volta dopo molti mesi. È un uomo globale che ama
l’Italia, ma che è consapevole che nel nostro Paese c’è molto
da fare. Un “molto” che si può riassumere in una sola parola:
innovazione. “C’è un deficit di innovazione, osserva, eppure
l’innovazione è necessaria”.
L’innovazione richiede investimenti. Parola poco di moda,
di questi tempi.
Nel dibattito di politica economica c’è un eccesso di
semplificazione fra chi dice che bisogna continuare a spendere e
chi sostiene che bisogna stringere su tutto. In realtà, la
risposta è molto più complessa. Al centro va posta una parola
chiave: crescita. L’innovazione è lo strumento principe per
favorire dinamiche di crescita, è la strategia fondamentale per
affrontare la nuova fase dell’economia globale. I Paesi avanzati
stanno perdendo la loro dinamica di crescita. È vero in Europa, ma
lo è ancor più in un’Italia che cresce meno della già bassa
media Ue.
L’attenzione è sul consolidamento fiscale.
Che è necessario, ma da solo non basta. L’Ocse raccomanda di
accompagnarlo con misure strutturali che alimentino la crescita.
Non mi riferisco solo a misure relative al mercato del lavoro o
alla concorrenza, come spesso si pensa, ma anche a politiche di
innovazione a carattere sistemico. È un cambiamento, anche
culturale, di cui abbiamo bisogno. L’Ocse è nota per la sua job
strategy, che negli anni Novanta ha aggregato le politiche per
l’occupazione di natura istituzionale in modo coerente per
massimizzare occupazione e crescita. Con la stessa ambizione, tre
anni fa, prima della crisi, l’Ocse ha messo in campo una
strategia dell’innovazione.
I risultati si vedono poco.
È una strategia più complicata di quella sull’occupazione
perché l’innovazione è un fenomeno multi dimensionale, è il
modo in cui un sistema funziona. La politica per l’innovazione
deve avere una grande articolazione: non esiste un singolo
indicatore di policy che basta a dire che in un Paese si fa o non
si fa innovazione.
Gliene dico uno io, di indicatore. La Cina spende più in
R&D di Usa e Ue insieme.
È vero. Ma la spesa, privata e pubblica, è solo uno dei
componenti. Lo stesso ammontare di risorse dà risultati molto
diversi a seconda di condizioni come sistema di istruzione,
meccanismi istituzionali, leve finanziarie e non finanziarie,
strumenti tecnologici e non tecnologici, innovazione non basata su
ricerca e sviluppo. Ad esempio, l’Osce ha verificato che è
l’investimento in istruzione a dare i frutti migliori nel lungo
periodo. Ma la quantità di laureati va ponderata con la qualità
del sistema dell’istruzione. E poi, si è notato che
l’innovazione non direttamente generata da R&D è in crescita e
che sono sempre più importanti forme di collaborazione nella
produzione di conoscenza, anche a livello globale. La conoscenza
“diffusa” aiuta l’insieme del mondo a crescere.
La crescita sembra avere abbandonato i Paesi più
avanzati.
Stavolta dobbiamo imparare dagli altri: prima le crisi scoppiavano
in periferia, l’ultima è scoppiata al centro. I Paesi emergenti
hanno tenuto perché hanno tratto la lezione dalle crisi precedenti
e ora ci stanno tirando fuori dalla crisi: dobbiamo essergliene
grati.
Anche di batterci col dumping sociale e di
prezzo?
Tassi di crescita eccezionali, come quelli mostrati da Cina, India
o Brasile, si giustificano nel tempo solo con la qualità. Una
crescita così intensa è conseguenza di una trasformazione
strutturale profonda che ha posto i Bric fra i protagonisti delle
global innovation chain, un modello di innovazione aperta in cui
Paesi, regioni, località si innestano con maggiore o minore
successo. Parti significative delle attività di R&D di aziende
multinazionali sono ora collocate in Cina o in India. Le stesse
autorità cinesi si sono rese conto che per sostenere i loro numeri
di crescita devono inserirsi all’interno di un processo globale
di innovazione. L’economia cinese sta diventando più matura. Vi
sono imprese che vogliono farsi concorrenza in modo trasparente,
non con strumenti “sleali”.
Ma quante, al momento?
“Mercato aperto” è fra le parole più usate dai politici
cinesi quando parlano con i colleghi occidentali A sentire loro,
sono tra i più strenui difensori della libertà di mercato
internazionale. In realtà, temono le reazioni protezionistiche dei
Paesi avanzati. Ma la via della competizione sleale sarà sempre
meno attraente per i governanti cinesi. Non è un modello che dura
a lungo: si troveranno sempre altri Paesi, sta già avvenendo, che
battono la Cina su questo piano.
Ma cosa deve fare il mondo avanzato?
Deve reagire con molta fermezza e una sola voce sul rispetto delle
regole. In Cina, a differenza degli americani, l’Europa è andata
divisa. In queste settimane i policy maker asiatici ci chiedono con
molta apprensione: “che succede all’euro”? Sono
preoccupatissimi all’idea che in Europa ci sia una double dip
recession, legata alla crisi del debito sovrano; temono che il
nostro mercato si rimpicciolisca. Abbiamo strumenti in mano per
fare rispettare regole all’interno delle quali ognuno compete
come sa. I cinesi devono sviluppare il loro mercato interno. È mai
possibile che in un mercato di un miliardo e duecentomila persone
non ci sia spazio per prodotti di alta qualità? Loro fanno le cose
sul serio, facciamolo anche noi.
Il modello occidentale risponde agli share holders ogni tre
mesi; i cinesi lavorano su altri orizzonti temporali.
Credo sia uno svantaggio competitivo essere costretti a muoversi
con logiche di brevissimo. Lo short termism non garantisce
investimenti a rendimento differito, soprattutto nelle grandi reti.
Una ulteriore prova che mostra come lo scontro competitivo è molto
più di un mero problema di costi.
E la domanda pubblica?
La domanda pubblica era di moda qualche decennio fa: forse dobbiamo
ritirarla fuori. La green growth strategy, una delle priorità su
cui l’Ocse lavora, ingloba energie e tecnologie più pulite, ma
anche cambiamenti nella struttura del consumo. Gli strumenti di
incentivazione e indirizzo della domanda vanno pensati come domanda
di innovation. E qui la domanda pubblica può giocare un ruolo
centrale.
Meglio piccoli o meglio grandi?
L’Ocse ha mostrato che l’innovazione non è tanto associata
alla dimensione delle imprese quanto alle imprese nuove, cioè alle
imprese che cominciano piccole ma poi crescono. Uno dei grandi
problemi dell’economia italiana non è avere imprese piccole, ma
averne che rimangono molto più piccole che in altri Paesi.
Come faccio una Silicon Valley a casa mia?
La domanda ce la siamo posta anche noi. La risposta è: non lo so.
Perché non c’è risposta. Nei distretti non c’è un caso di
successo uguale all’altro. Vi è un’alchimia di elementi che si
può combinare in vari modi: però penso che l’innovazione si fa
più efficacemente a livello locale, di regione o di distretto,
piuttosto che nazionale.
Padoan: “Consolidare l’innovazione non basta per crescere”
Il Chief economist dell’Ocse: “L’innovazione non è tanto associata alla dimensione delle imprese quanto a quelle che cominciano piccole, ma poi crescono. Uno dei problemi dell’economia italiana non è avere imprese piccole, ma che rimangono più piccole che in altri Paesi”
Pubblicato il 19 Lug 2010
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