IL PCT tra giurisprudenza e prassi
Con la recentissima sentenza del 20 gennaio 2016 n. 189, il Consiglio di Stato ha affermato che la notifica dell’atto di appello, effettuato mediante posta elettronica certificata ai sensi della legge n. 53/1994, deve considerarsi inesistente trattandosi di una modalità di notificazione priva di qualsivoglia espressa previsione normativa circa la sua idoneità e, come tale, in alcun modo sanabile. Ha rilevato a tal proposito il Collegio, che per il processo amministrativo telematico non sono state emanate le regole tecniche e le specifiche tecniche così come previste dall’art. 13 dell’Allegato 2 al Codice del Processo Amministrativo, regole e specifiche tecniche già, invece, emanate per il processo civile telematico e per i giudizi dinanzi alla Corte dei Conti, in mancanza delle quali, la PEC non può che considerarsi “speciale” così come previsto dall’art. 52, comma 2 del Codice del Processo Amministrativo, che prevede per il suo utilizzo l’espresso riferimento all’art. 151 C.P.C., di una specifica autorizzazione presidenziale che allo stato ancora manca.
Quest’ultima sentenza contraddice tutte le precedenti Sentenze dello stesso Consiglio di Stato, sentenza n. 4270 del 14 settembre 2015; sentenza n. 4862 del 22 ottobre 2015; sentenza n. 2682 del 28 maggio 2015, emesse dalle stesse sezioni e a volte dallo stesso collegio del CdS che avevano, invece, solo alcuni mesi fa reiteratamente sancito che le notifiche degli avvocati tramite PEC, ai sensi della legge n. 53 del 1994, nel processo amministrativo erano pienamente utilizzabili ed efficaci.
A questo disorientamento ingenerato della giurisprudenza si somma quello degli uffici giudiziari, infatti, sotto il profilo operativo, il ministero della giustizia, ad esempio al punto 4 della circolare del 23 ottobre 2015, ha previsto la messa a disposizione al giudice della copia informale, ad opera delle parti o degli ausiliari, come soluzione o prassi organizzativa da adottare a livello locale, soluzione però priva di statuizioni imperative e come prassi libera da qualsiasi vincolo di forma, non aggiuntiva né sostitutiva del deposito telematico ma solo come messa a disposizione del giudice di atti processuali trasposti su carta. Tale disposizione è stata così foriera dell’emergere di altre incertezze interpretative e operative, e ha fatto si che i dirigenti dei singoli uffici giudiziari, nella fattispecie i Presidenti di Corte di Appello, siano dovuti intervenire con ulteriore note e circolari esplicativi sulla stessa Circolare del Ministero della giustizia del 23 ottobre 2015, per spiegare che la stessa prospettava questioni da approfondire per essere, poi, correttamente interpretate al fine di non determinare prassi distorsive in sede di applicazione del PCT in sede locale.
Se a queste incertezze sul PCT, che tutti gli operatori della giustizia, specie in sede d’interpretazione, affrontano su base quotidiana, si aggiunge poi la scelta operata in sede di emanazione delle specifiche tecniche pubblicate in G. U. il 7/1/2016, le quali in tema di documento informatico giudiziario fanno segnare una eccezione alla normativa generale del CAD, non solo ci si rende conto che il legislatore non semplifica alcunché ma addirittura frammenta ulteriormente la normativa regolamentare e tecnica del PCT con ovvie conseguenze negative sull’intero sistema.
Ben si comprende perciò la distanza degli operatori del diritto processuale telematico e la loro richiesta di una riforma per il coordinamento tra le norme di rito e le regole tecniche, necessità di cui si avverte il bisogno. Questo coordinamento ben potrebbe essere individuato in capo all’Agenzia per l’Italia Digitale, che ha per Statuto proprio una tale missione, e che così potrebbe rilanciare le sue attività che dopo i primi risultati della fase di avvio di SPID, PagoPA e ANPR, potrebbe trovare nuovi stimoli per rilanciare la sua missione innovativa per la piena interoperabilità, la condivisione dei dati e il coordinamento normativo e tecnico del Processo civile telematico.