“Per la digitalizzazione più cultura e norme chiare”

Dina Ravera, presidente di Asstel: “Il dibattito è eccessivamente focalizzato sulla dimensione tecnologica. Ma la trasformazione digitale è un problema anche organizzativo e normativo”

Pubblicato il 06 Giu 2016

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Il dibattito pubblico che ruota intorno al tema della digitalizzazione appare ancora troppo unidimensionale, eccessivamente focalizzato sulla dimensione tecnologica. Questa impostazione ha giocato un ruolo pesante nel ritardare il formarsi nel Paese di quella consapevolezza necessaria per capire che prima che tecnologico, il problema della trasformazione digitale è culturale, organizzativo e normativo.

La copertura del territorio italiano con reti di Tlc efficienti costituisce, infatti, una condizione necessaria, ma non sufficiente a far decollare l’economia digitale. L’Italia oggi dispone di una capacità di banda del tutto in grado di supportare progetti di digitalizzazione su larga scala, come quelli relativi ai servizi pubblici, allo sviluppo dell’home banking, dell’e-commerce. Naturalmente, questa dotazione infrastrutturale deve essere migliorata e un assetto normativo più favorevole agli investimenti aiuterebbe a farlo più rapidamente. Pensiamo con quanta difficoltà si è giunti, a ben tre anni dalla sua previsione contenuta nel Crescita 2.0, ad avere una normativa sulla posa in opera della fibra ottica, che semplificasse gli iter burocratici e consentisse l’uso di tecniche e materiali innovativi.

Oggi le maggiori difficoltà si addensano invece sulla rete mobile, con la questione irrisolta delle “linee guide per la rilevazione delle emissioni elettromagnetiche”, sempre previste dal “Crescita 2.0”. Si tratta di emanare tre “linee guida”, ma ad oggi solo uno dei relativi decreti è stato varato dal Ministero dell’Ambiente, mentre non è possibile formulare ipotesi sulla tempistica degli altri due. I ritardi normativi pesano in termini molto negativi, poiché le linee guida dovrebbero uniformare, per l’intero territorio nazionale, valutazioni e parametri che sono utili sia all’attività di controllo delle emissioni da parte delle Arpa e Appa, che alle operazioni di progettazione delle reti mobili degli operatori. Se mancano, tutto è più difficile e più costoso, in un ambito che risente anche dei limiti all’emissione elettromagnetica più alti d’Europa, un’altra caratteristica che non favorisce certo l’infrastrutturazione del Paese.

Nonostante questi oggettivi ostacoli normativi allo sviluppo delle infrastrutture, il vero blocco per il salto digitale del Paese è di altra natura. I dati, infatti, parlano chiaro. Il 96,9% del territorio italiano è coperto da banda larga fissa a 2-20 Mb/s, contro una media europea del 97%. Sulla banda ultralarga fissa, oggi siamo a 36,5% della popolazione raggiunta dai servizi tra 30 e 100 Mb/s contro una percentuale media EU dell’86%. Gli operatori privati hanno già dichiarato nei proprio piani di investimento che entro il 2017 questa infrastruttura sarà disponibile al 75% della popolazione. A questi piani si sommano i programmi del Governo per le aree bianche. Il gap, quindi, si sta ormai riducendo. Sulla disponibilità di banda ultralarga mobile l’evidenza che il problema sia altro è ancora più palese, avendo l’Lte raggiunto, a fine 2015, un tasso di copertura del 91,5% del territorio italiano, superiore alla media europea, che si attesta all’80%. Questa rete, quindi, è ormai in grado, di connettere alla velocità del 4G la stragrande maggioranza dei cittadini italiani, delle aziende e delle PA.

Quanto a disponibilità delle infrastrutture, niente impedisce che in Italia si sviluppino servizi online, sistemi di pagamento, nuove applicazioni, nuovi modelli di studio, di lavoro o di business basati sull’uso di device mobili. Ma è proprio questa dimensione che stenta ad emergere. Valga per tutti il dato sul tasso di adozione del 4G che in Italia rimane estremamente basso, riguardando solo il 12,6% degli utenti, a fronte del 43% circa della Gran Bretagna, del 30% della Francia, del 28% della Germania e del 22% della Spagna.

Rimane, dunque, il nodo da sciogliere del basso utilizzo del digitale che continua a caratterizzare il nostro Paese, trascinandolo a occupare gli ultimi posti della classifica europea. In questo scenario, la parola d’ordine “Execution” deve riguardare soprattutto lo sviluppo dell’offerta e l’ampliamento dell’adozione dei servizi digitali, da sostenere anche attraverso un contesto normativo evoluto in grado di essere fattore di stimolo all’innovazione. In questo senso le iniziative del Governo come quelle sull’identità digitale, sulla fatturazione elettronica estensibile alla fatturazione tra privati, sui pagamenti della PA, sull’anagrafe unica nazionale digitale, costituiscono elementi fondamentali per portare rapidamente sul digitale tutte le transazioni che interessano i cittadini-consumatori e creare l’esigenza di essere in rete ed utilizzarne i servizi. Per garantire un’ ”Execution” efficace le parole chiave sono semplicità di utilizzo, interoperabilità, flessibilità.

Sotto questo profilo sia l’Italia che l’Europa hanno di fronte un lavoro imponente, che richiede strategia e azioni complesse. È, in fondo, la stessa sfida cui risponde la “Strategia per il mercato unico digitale” elaborata dalla Commissione Junker. In entrambi i casi, c’è un grande lavoro culturale e normativo da fare.

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