L’avvento delle grandi piattaforme digitali di intermediazione commerciale (come Amazon, ma non solo) ha dato vita a nuove forme distributive e a nuove strutture di organizzazione del commercio che possono rappresentare un’opportunità – non solo per i consumatori ma per il sistema produttivo di un paese; tuttavia è necessario che gli operatori possano operare a parità di condizioni competitive o quantomeno di regolamentazioni simmetriche. L’analisi è contenuta nella ricerca “La concorrenza asimmetrica” realizzata dal professor Marco Gambaro, docente di Economia della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano, presentata oggi a Roma e promossa da Aires e Ancra Confcommercio. Lo studio prende in esame le trasformazioni introdotte sul mercato dalle piattaforme digitali in genere per poi focalizzarsi in particolare sul settore e-commerce e dell’elettronica di consumo e esplorare le aree in cui la mancanza di questa parità di condizioni sta creando distorsioni della concorrenza e danni per la collettività.
Perso il 20% dei negozi di elettronica
Il mercato dell’elettronica di consumo è tra i settori che più subiscono questa situazione di concorrenza asimmetrica e per il quale il problema si pone in maniera particolarmente stringente, si legge nella ricerca del prof. Gambaro. Nel 2018 il mercato dell’elettronica di consumo in Italia aveva una dimensione di circa 17 miliardi, secondo le stime di GFK, di cui circa il 14% venduti tramite i canali online, quota che è cresciuta al 15% nel 2019. All’interno di questo fatturato generato online (2,3 miliardi di euro) Amazon detiene circa il 65%, mentre il resto del canale è polverizzato in oltre 500 siti di commercio elettronico di cui solo una manciata di dimensioni rilevanti, osserva il prof. Gambaro.
Come in altri paesi lo sviluppo di Amazon sul mercato italiano ha spinto alla chiusura numerosi negozi tradizionali, nonostante per il momento la quota di mercato dell’on line in Italia sia inferiore rispetto ad altri paesi.
Mentre il numero dei superstore tecnici e degli ipermercati è rimasto sostanzialmente stabile, i negozi tradizionali di minori dimensioni e gli specialisti di elettronica sono diminuiti sensibilmente, con una perdita di oltre 6000 punti vendita (il 20% del totale) dal 2010 al 2018, secondo le rilevazioni Gfk.
“I negozi sono sottoposti a una regolamentazione specifica per le vendite sottocosto che possono essere effettuate tre volte l’anno”, osserva il prof. Gambaro. “Per le piattaforme di commercio elettronico invece non esistono obblighi del genere, nessun controllo preventivo e nessun obbligo di informare i consumatori”. E, sebbene non esistano informazioni precise disponibili, la strategia di avere sempre il prezzo più basso porta presumibilmente Amazon in diverse occasioni ad essere sottocosto, sia nelle vendite dirette sia, a maggior ragione nel marketplace. In un settore dove i prodotti sono sempre identici e dove il confronto di prezzo è immediato queste differenze possono avere un effetto competitivo sostanziale”.
Non è solo questione di web tax
L’espansione del modello creato dalle piattaforme digitali multinazionali nel mercato dell’elettronica di consumo è avvenuto con un contesto regolamentare diverso da quello in cui operano gli altri operatori e ha generato anche significativi effetti negativi, afferma il prof. Gambaro. “Si rendono necessari interventi normativi e regolamentari per ripristinare un corretto funzionamento della concorrenza”.
Al netto della web tax, tema di cui si discute spesso con riferimento alla vendita online, “sono numerose le discrasie evidenti nel confronto non tra commercio tradizionale e commercio elettronico, ma tra moderni rivenditori omnicanale e piattaforme multinazionali di intermediazione online”, continua la ricerca. “La web tax non esaurisce il tema della regolamentazione delle piattaforme multinazionali di intermediazione online, anzi è solo uno dei molti profili critici di una situazione per la quale è necessario intervenire non solo a livello fiscale ma anche e soprattutto dal punto di vista delle norme di sistema e di politica economica”.
Tutte le “asimmetrie” del digitale
L’asimmetria competitiva riguarda molte piattaforme digitali, non solo quelle dell’e-commerce e dell’elettronica di consumo, e diversi governi e regolatori sono intervenuti con provvedimenti specifici. Ad esempio in diversi paesi europei l’attività di Uber è stata limitata, a meno che i driver non adottino le stesse regolamentazioni delle macchine a noleggio. Anche nel turismo si è cercato di separare le attività professionali dalle integrazioni di reddito di coloro che offrono stanze e abitazioni tramite Airbnb, riservando regolamentazioni semplificate a chi affitta solo in modo saltuario.
In generale, si legge nello studio, gli elementi di preoccupazione maggiori nei confronti delle piattaforme digitali sembrano essere: le asimmetrie rispetto agli operatori tradizionali; le possibili esternalità negative di uno sviluppo incontrollato (overtourism, desertificazione delle città); l’abuso di dati personali dei consumatori con la possibilità di influenzare in modo indebito le preferenze ed i comportamenti d’acquisto.
Si tratta di preoccupazioni che interessano non solo le dimensioni strettamente economiche, ma anche quelle competitive e sociali. Per esempio, la chiusura dei negozi di quartiere porta alla perdita di aree di aggregazione sociale fino alla desertificazione di alcune zone. Ci sono anche significative ricadute sul mercato del lavoro: la nuova occupazione creata dalle piattaforme digitali è generalmente molto più ridotta e molto sbilanciata verso le figure professionali meno qualificate, sostiene il prof. Gambaro. Secondo una ricerca presentata da Inapp del giugno 2018 le prime 9 piattaforme digitali in Italia nel 2016 contavano complessivamente 2066 addetti, mentre le prime cinque insegne di vendita al dettaglio di elettronica di consumo impiegano circa 20mila addetti diretti.
Le piattaforme digitali possono anche negoziare con le amministrazioni pubbliche contributi, sovvenzioni ed esenzioni fiscali in cambio della localizzazione di depositi o infrastrutture su un particolare territorio, continua lo studio. È quello che ad esempio ha fatto Ryanair ottenendo contributi da numerosi aeroporti minori per attivare le proprie rotte in quelle località. Secondo una ricerca dell’ILSR, Amazon tra il 2005 e il 2014 ha ottenuto sovvenzioni pubbliche almeno nel 52% dei depositi e delle infrastrutture che ha costruito negli Stati Uniti. Il valore complessivo di queste sovvenzioni è di 760 milioni di dollari e corrisponde a circa il 17% dei profitti complessivi di Amazon nello stesso periodo.
Rischi del marketplace: il caso Amazon
Molte piattaforme elettroniche, oltre a vendere direttamente, ospitano commercianti terzi nel loro marketplace, uno spazio in parte autonomo, di cui raccolgono informazioni e di cui non sono responsabili con i clienti. Nel caso di Amazon la maggior parte delle vendite della piattaforma sono realizzate da operatori terzi attraverso il Marketplace. Un primo problema, si legge nella ricerca del prof. Gambaro, è costituito dal fatto che i consumatori non si rendono conto facilmente di questa configurazione e credono di comprare da Amazon anche se acquistano da operatori terzi. Questa confusione diventa problematica se si verificano problemi nell’acquisto che richiedono assistenza post-vendita.
Lo sviluppo delle piattaforme obbliga molti dettaglianti a vendere online attraverso i loro servizi, ma in questi casi esiste la possibilità di comportamenti predatori che sfruttano i dati di vendita dei retailer affiliati per mettere a punto i propri prodotti, lasciando ai primi il peso dei rischi maggiori. Nel settembre 2018 la Commissione europea ha avviato una richiesta di informazioni in questo senso.
“Probabilmente in questi casi una regolamentazione che aumenti la responsabilità della piattaforma di commercio elettronico per i comportamenti scorretti o illegali di alcuni operatori potrebbe contribuire ad una bonifica del mercato”, afferma il prof. Gambaro.
La ricerca conclude: “Occorre che le istituzioni creino un contesto adeguato affinché tutti gli operatori siano in grado di sviluppare iniziative di commercio elettronico per offrire nuovi servizi ai cittadini senza che emergano rischi di monopolizzazione e che pochi grandi operatori possano approfittare delle loro rilevanti dimensioni per limitare lo sviluppo del mercato”.