Esiste ancora la privacy nell’era digitale? E’ un tema molto discusso in questi giorni, soprattutto in seguito allo scandalo legato alle intercettazioni americane. Per una società come la nostra, Value Search, che da più di dieci anni ricerca specialisti e manager sul mercato nazionale o internazionale, il rispetto della privacy dei nostri candidati esiste eccome ed è fortemente disciplinata da alcune leggi nazionali.
Eppure, negli ultimi tempi, la nostra società sta ricevendo delle richieste – per lo più da aziende straniere- che ci suggeriscono talvolta di ricostruire non solo la storia professionale e accademica dei nostri candidati (attività che normalmente viene svolta sulla base di un curriculum e di un colloquio di selezione), bensì anche il loro profilo digitale, ossia le informazioni presenti in rete e fruibili mediante interrogazioni sui motori di ricerca, le quali sono state pubblicate direttamente dai candidati stessi o da loro conoscenti.
Ci è capitato, ad esempio, che una nota università americana ci chiedesse esplicitamente quali sistemi utilizziamo per effettuare il “credentials check”, ossia il controllo delle informazioni rilasciate dai candidati in rete e rilevanti sotto l’aspetto professionale. Di per sé tale richiesta è interessante perché lascia supporre una duplice esigenza: da un lato quella di “ricomporre” l’immagine professionale dei candidati attraverso il riflesso delle diverse informazioni presenti in rete (network professionali, social network, blog, community, ecc.), dall’altro, quella di andare al di là di tale immagine, ponendo il tema della veridicità delle informazioni.
Nel corso di una vita di interazioni digitali, ogni individuo lascia una moltitudine di impronte virtuali e i progressi tecnologici facilitano la raccolta di dati su vasta scala, l’archiviazione illimitata, nonché il riutilizzo e il collegamento a vita di queste tracce digitali. Questo nasconde numerose insidie in termini di potenziali utilizzi imprevisti dei dati.
Facciamo un paio di esempi. Pensiamo ad un candidato che in sede di colloquio neghi il consenso all’utilizzo dei propri dati sensibili, ma che racconti la propria esperienza personale in un blog di pazienti sottoposti a cure chemioterapiche. Il paradosso è evidente: si tratta di un dato sensibile (riguardante lo stato di salute del singolo), che però è stato reso pubblico. Cosa fare? Spingiamoci oltre: un candidato che stiamo incontrando nell’ambito di un progetto di ricerca per una società del settore del tabacco, il quale, nonostante l’interesse al progetto mostrato durante il colloquio, è presente in rete con dichiarazioni contro il fumo. Dobbiamo pensare che si tratti di un’informazione rilevante sotto l’aspetto professionale? Se ammettessimo di sì, allora dovremmo informare la società nostra cliente? Quale peso avrebbe tale opinione che rappresenta un dato sensibile (riguardante una convinzione), ma è stata resa pubblica dallo stesso candidato?
Sulla base di questi esempi, evidentemente paradossali, non possiamo che consigliare ai nostri candidati, soprattutto ai giovani manager, in una logica di gestione prospettica della propria crescita professionale, di fare molta attenzione alla consistenza delle informazioni rilasciate in rete.