La strage dell’altro ieri di Bruxelles ha riacceso un dibattito al quale abbiamo già assistito all’indomani delle stragi di Charlie Hebdo prima e del Bataclan poi, un dibattito che ruota sempre attorno alla stessa domanda proposta, quasi si trattasse di un presupposto ineludibile e del punto di partenza necessario di qualsiasi ragionamento sul tema: è giusto rinunciare ad un po’ nella nostra privacy per garantirci maggiore sicurezza?
In Francia il Ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, si è affrettato a dichiarare, in diretta televisiva, che il suo Governo sta valutando con attenzione l’idea di utilizzare in tutti gli aeroporti tecnologie di riconoscimento facciale per l’identificazione di eventuali terroristi e da più parti, in giro per l’Europa, si è tornati a chiedere a gran voce di rafforzare e centralizzare l’attività di cyber-intelligence anche a costo di chiedere ai singoli Paesi ed ai loro cittadini di rinunciare ad una porzione più o meno rilevante della propria sovranità e del proprio diritto alla privacy.
Vale la pena dire subito senza esitazioni né ambiguità che è un dibattito scomposto, disordinato e confuso che rischia di produrre effetti e conseguenze di matrice culturale, sociale, politica ed economica straordinariamente gravi.
E’ ovvio, infatti, che alla domanda se siano o meno disponibili a vivere una vita meno riservata di quella attuale ma più sicura, la quasi totalità dei cittadini europei – e non solo – oggi, con le immagini di sangue, dolore e disperazione rimbalzate da Parigi e Bruxelles ancora scolpite nella mente e nell’anima, risponderebbe in maniera affermativa.
E però, per questa via, si propone – ed anzi si dà quasi per scontato – un rapporto di antiteticità tra due diritti e libertà fondamentali che, nella realtà, non esiste o, almeno, non dovrebbe esistere.
Sicurezza e privacy sono, al contrario, due facce della stessa medaglia, due dimensioni diverse di tutela dell’identità della persona, due diritti e due libertà che competono ad ogni cittadino senza che si debba trovare di fronte all’alternativa di scegliere di inseguirne una, rinunciando all’altra.
A costo di apparire scontati val la pena ricordare le parole di Benjamin Franklin: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.
Il compito di garantirle entrambe, al maggior livello di intensità disponibile compete naturalmente ai Governi.
Anche perché non c’è alcun dubbio – e non deve esservi – che non esiste alcuna proporzionalità aritmetica diretta tra l’aumento della sicurezza e la diminuzione della privacy. La strage dell’altro giorno all’aeroporto di Bruxelles rappresenta la più drammatica e plastica conferma di questa conclusione. E’, infatti, difficile immaginare, oggi, in Europa un luogo nel quale il diritto alla privacy sia più compresso e limitato di quanto accada nell’aeroporto di un Paese malauguratamente diventato – ben prima dell’attentato di ieri – epicentro noto del sisma terroristico che, da tempo, minaccia l’intero vecchio continente.
Eppure, purtroppo – forse neppure per caso – è proprio in quel luogo che i terroristi hanno scelto di portare, ancora una volta, la morte. “Il Belgio conosceva i kamikaze”, titola oggi La Repubblica. Un titolo forte, un j’accuse all’indirizzo del sistema di sicurezza ed intelligence belga ma, più in generale europeo che, però, veicola un messaggio che andrebbe ricordato la prossima volta che qualcuno suggerirà che per garantire ai cittadini europei più sicurezza bisogna che questi ultimi accettino di rinunciare ad un po’ della loro privacy.
La sicurezza non è funzione della maggiore quantità di dati che si raccolgono e della minore privacy che si garantisce ai cittadini ma della capacità di analisi e condivisione dei dati dei quali le pubbliche Autorità sono già in possesso. Più sicurezza, dunque, non significa meno privacy.
C’è poi un altro aspetto, egualmente ricorrente, del dibattito che torna a riaccendersi all’indomani di ogni tragedia come quella di Bruxelles. Servono più cybersecurity e cyberintelligence – si dice da più parte – e per garantirle bisogna che i cittadini europei accettino l’idea che i loro dati personali in transito attraverso le reti ed i servizi di comunicazione elettronica o, semplicemente, conservati nei loro PC siano più penetrabili ad occhi ed orecchie digitali delle forze dell’ordine.
Ed è per questa strada che nell’ordinamento francese, all’indomani della strage del Bataclan, il Governo si è dotato di poteri straordinari in termini di compressione della privacy digitale dei propri cittadini – e non solo – e che la Gran Bretagna si avvia a fare altrettanto mentre la stessa Italia nicchia e tergiversa ma non disapprova e, anzi, talvolta “accarezza” l’idea di seguire l’esempio.
Quando si parla del rapporto tra privacy e sicurezza nella dimensione digitale, tuttavia, alle considerazioni fatte sin qui, occorre aggiungerne un’altra di straordinaria importanza perché in questo caso, il problema non è solo l’errore che si commette quando si “contrabbanda” per necessariamente alternativo il rapporto tra due diritti e libertà fondamentali.
In questo caso, purtroppo, si fa leva anche su una diffusa debolezza culturale e su una pericolosa sottovalutazione del significato, dell’importanza e della centralità nella vita di un uomo di questa epoca della proiezione digitale della sua identità personale.
Nel 2010, l’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni propose di installare body scanner in tutti i principali aeroporti e stazioni italiani. In tanti, davanti all’idea di doversi ritrovare “nudi” sotto un body scanner per prendere un treno o un aereo manifestarono, forte, il loro dissenso e richiamarono l’attenzione sulla palese sproporzionalità dell’iniziativa specie in assenza di qualsivoglia certezza scientifica – anche solo su base statistica – del ricorso a tali strumenti per abbattere la minaccia terroristica.
Oggi, al contrario, poiché ci si chiede “solo” di accettare l’idea che Governi e forze dell’ordine possano entrare nei nostri dispositivi mobili e nei nostri PC o accumulare quantità enormi di dati personali, le reazioni appaiono decisamente più tiepide, quasi che la nostra privacy nella dimensione telematica valga di meno di quanto vale in quella fisica.
Si tratta, naturalmente, di un errore di prospettiva figlio dei tempi: il valore dell’immateriale che si tratti della proprietà intellettuale o del nostro diritto alla privacy nella dimensione digitale è, sfortunatamente, ancora percepito – per ragioni tutte culturali – come meno rilevante rispetto al valore del materiale.
Ci si sente più violati nella propria privacy nell’essere costretti a passare per uno scanner che ci metta fisicamente a nudo piuttosto che nel sapere che occhi ed orecchie digitali, più o meno indiscrete, scandaglino i nostri PC, tablet e smartphone.
In un contesto di questo genere è compito dei Governi promuovere un processo di educazione alla cultura della privacy all’esito del quale solo sarà possibile “chiedere” ai cittadini di esprimersi in modo consapevole circa la loro effettiva disponibilità a rinunciare – ammesso che ciò sia davvero necessario – ad un po’ della propria privacy in nome di una semplice, non provata e non provabile ambizione di maggior sicurezza.