INDAGINE AGCOM

Produttori tv italiani? Deboli e senza capitali

Indagine Agcom sul settore della produzione audiovisiva. Tra le prime 40 società europee ce ne sono solo due italiane, Taodue (22°) e Cattleya (30° posto)

Pubblicato il 08 Apr 2016

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Per la prima volta l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha condotto un’indagine conoscitiva sul settore della produzione audiovisiva in Italia. In un Rapporto di 174 pagine i tecnici dell’Autorità scattano una fotografia impietosa del sistema produttivo italiano.

Nonostante il linguaggio burocratico, il concetto è chiarissimo: “ Accanto a pochi soggetti dotati di una propria solidità societaria e finanziaria che li rende attori in grado di competere con successo sul mercato nazionale ed internazionale e di adottare strategie commerciali e produttive indipendenti dalle scelte editoriali dei committenti, i broadcaster,” vi è “la presenza di una nutrita platea di soggetti che, per dimensioni e caratteristiche strutturali, appaiono di fatto dipendenti, da un punto di vista finanziario e di strategie produttive” dagli stessi broadcaster. La grande maggioranza del mercato italiano è caratterizzato da “l’assenza di una capacità imprenditoriale autonoma da parte di molte imprese produttrici di contenuti”.

Imprese “sottocapitalizzate” e con “una scarsa propensione al rischio, anche in termini di sperimentazione di prodotti e contenuti innovativi”. I dati economici sono ancora più chiari. Tra le prime 40 società di produzione in Europa, solo due sono italiane, posizionate al 22° (Taodue, Gruppo Mediaset) e al 30° posto (Cattleya), con dati d fatturato riferiti al 2013 rispettivamente di 82,5 e 61,6 ml di euro, ben lontane dai ricavi delle prime dieci società europee. Nel contesto nazionale, le prime 10 società di produzione cumulano ricavi per un totale di 345,6 ml euro, con un valore medio di fatturato di circa 34 ml euro.

Allargando l’analisi alle prime 50 società italiane di produzione audiovisiva, i ricavi cumulati ammontano a 645 milioni di euro, con un fatturato di appena 200 mila euro per la società al cinquantesimo posto.

Un mercato frammentato e scarsamente proteso verso i mercati esteri, in cui la “Rai rappresenta per la platea dei produttori indipendenti, l’unica fonte di domanda di contenuti”, e con i suoi 450 milioni di investimenti (anno 2013) tra fiction e produzioni cinematografiche, il quasi esclusivo motore finanziario dell’intero sistema. Ma quali sono le cause che hanno determinato una tale situazione di mercato? L’analisi delle criticità è del tutto opposta tra broadcsaster e produttori indipendenti. Per i Broadcaster la principale “causa” è il sistema regolamentato di quota di investimento ai produttori indipendenti. Tale sistema ha fatto venir meno lo stimolo concorrenziale, gli “spiriti animali” del capitalismo, le spinte all’innovazione nei produttori audiovisivi, che si sono “adagiati” sullo status quo e sulle risorse economiche garantire dalla regolamentazione.

Al contrario, i produttori indipendenti sostengono che la povertà del mercato è dovuta allo squilibrio nella gestione dei diritti sulle opere prodotte. L’acquisto, da parte dei broadcaster, della quasi totalità dei diritti di sfruttamento sulle opere commissionate, non consente ai produttori di sfruttare in maniera profittevole e su mercati alternativi le opere audiovisive, impedendogli di acquisire una propria e consolidata dimensione aziendale.

Ma tale pratica negoziale sui diritti, dicono i broadcaster, è dovuta al fatto che il contributo economico alla produzione del prodotto è “pressochè esclusivo da parte dei broadcaster”. In buona sostanza, i broadcaster italiani considerano i produttori indipendenti dei “conto-terzisti” di qualità. Come uscire da questo circolo vizioso? Le conclusioni dell’indagine, votate a maggioranza (3 a 2) dal Consiglio AGCOM, appaiono troppo timide rispetto alle analisi economiche contenute nel rapporto stesso ed al grave scenario produttivo che ne emerge.

Pur indicando la necessità di un processo di consolidamento per superare la frammentazione del mercato, gli esiti dell’indagine sono del tutto deboli ed evasivi nell’affrontare il tema centrale degli obblighi di investimento e la gestione dei diritti secondari.

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