Chi ha paura di Google? L’antitrust americana e quella italiana, il G8 e la Ue, Rupert Murdoch (cioè gli editori con quelli tv in testa) e Martin Sorrel, cioè i signori della pubblicità. Tutti a minacciare indagini, chiedere regole, lanciare invettive. Quasi un’ossessione, giustificata però dalla mole del soggetto (14 miliardi di dollari nel primo trimestre 2013 con una crescita del 31% e guadagni per oltre 3 miliardi), i cui movimenti cominciano a farsi sentire sui mercati nazionali, soprattutto della comunicazione, spingendo gli operatori in difficoltà a suonare squilli di guerra.
La questione non è semplice, perché è la somma di tecnologia, nuovi stili di consumo, ritardi imprenditoriali da una parte e normativi dall’altra. La strategia di difesa non è pacifica, soprattutto alla luce degli accordi di libero scambio fra Europa e Usa in fase di negoziazione proprio in queste settimane. Le multinazionali digitali, di cui Google è il campione indiscutibile e discusso, non hanno fabbriche e non spostano merci ma enormi somme di denaro come e dove più conviene loro. Verrebbe da dire: “è la globalizzazione, bellezza”, ma sarebbe solo un modo per non voler vedere il problema. Che è la migliore premessa per non risolverlo, in qualsiasi modo.
Martin Sorrel, boss di Wpp, il più grande gruppo pubblicitario al mondo, è uno che se ne intende e sostiene che Google, Facebook, Twitter sono media company mascherate da società tecnologiche. Una definizione che forse meglio di Ott aiuta a capire perché stanno spadroneggiando nel mercato dell’advertising digitale, con il disappunto e la preoccupazione degli editori e delle concessionarie.
Se l’elusione fiscale è il tema che appassiona di più i politici di ogni livello (il G8 di giugno ha lanciato la sua minaccia – Google&Co. dovranno pagare più tasse nei Paesi in cui operano – e ha promesso un’armonizzazione dei regimi, che però non sarà né semplice né veloce), se la questione dei diritti d’autore sembra aver trovato una via di possibile soluzione (Google si dice disponibile a sedersi al tavolo con la Federazione degli Editori, come ha fatto del resto in Francia dove alimenta un fondo di 60 milioni l’anno), c’è un altro fronte forse meno evidente ma altrettanto rilevante per il sistema economico.
“Nel giro di pochi anni Google potrebbe diventare monopolista nel mercato della raccolta pubblicitaria”, ha avvertito poche settimane fa, presentando al Senato l’attività svolta nel 2012, il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella. Un alert che non sembra aver trovato l’attenzione che meriterebbe nell’opinione pubblica, anche quella più qualificata, e nella politica. Non ci sono dati ufficiali ma tra gli addetti ai lavori l’incubo ha questa consistenza: Google controlla il 60% del display advertising e buona parte di questi soldi va fuori dal Paese. Nel 2015 punta a 2 miliardi di euro di ricavi, una cifra enorme se si tiene conto che tutto il mercato dei cosiddetti payed media vale circa 7 miliardi, dopo averne persi tre negli ultimi cinque anni.
A rischio è soprattutto il futuro delle concessionarie: “Sono l’anello debole della filiera”, riconosce Vittorio Brunori, ceo di Optimedia (gruppo Publicis), terza agenzia pubblicitaria in Italia. “L’uso di piattaforme digitali, che accrescono la disintermediazione tra mezzi e clienti, sta cambiando il nostro mondo”. La pubblicità ormai si compra sulla base delle performance, in tempo reale, spiega Brunori: “Su Internet, ma in prospettiva anche in tv, si decide a quale prezzo si è disposti a comprare impression, lead o altro e le piattaforme svolgono un’asta per andare ad acquisire alle migliori condizioni contatti a target. Il ruolo di chi vende i media ne esce ovviamente ridimensionato”. La parola chiave è piattaforma. Nelle concessionarie se ne parla molto ma nessuno vuole farlo a viso scoperto: la tecnologia che assembla inventory (gli spazi a disposizione) ha ridotto progressivamente la necessità di strutture e risorse professionali nell’intermediazione fra investitori e media. E sta spingendo fortemente verso la concentrazione. Google è il frutto di questa evoluzione e AdSense la piattaforma perfetta, non solo perché è la più grande: ha il traffico, ha i clienti, ha l’inventory.
La concentrazione è dalla parte di chi vende pubblicità ma anche da quella di chi la compra. “Se colossi come Procter&Gamble decidono di investire una parte significativa del loro budget tramite piattaforma direttamente dall’headquarter per tutta l’Europa vuol dire che qualcosa è cambiato profondamente”, dicono amaramente in una tra le maggiori concessionarie della carta stampata. “È un processo inevitabile: gli headquarter delle aziende stanno richiamando alcune funzioni ma servono sempre gli uomini sul territorio”, osserva Marco Benatti, presidente di FullSix e buon conoscitore sia del mercato tradizionale sia di quello digitale, che nel cambiamento vede anche qualcosa di buono: “C’è più trasparenza. È finito il suk di un tempo”. Resta il “drenaggio” di denaro denunciato da Fedele Confalonieri. E se contro la “rendita parassitaria” si è esposto il presidente di Mediaset è perché ad essere insidiata è più la fonte di sostentamento della tv che non quella della carta stampata.
Televisione e internet si stanno avvicinando velocemente. YouTube, ancora Google, non è in Auditel ma dichiara oltre 20milioni di “spettatori” (chi li mette in dubbio dice che sono meno della metà). Inevitabile il travaso di risorse. La Rai riceve più soldi da YouTube, per i suoi video “clonati” sulla piattaforma in base a un accordo da molti ritenuto poco strategico, di quanti Sipra, la sua concessionaria, riesca a raccogliere nel portale proprietario. Stravaganze dell’evoluzione digitale che un addetto ai lavori prosaicamente racconta così: “YouTube farà molto male. E non solo alla televisione. Tutti ormai cerchiamo di vendere video. Ma loro hanno più traffico, vendono meglio e a prezzi migliori. Adesso il tema è: Google avrà in mano solo i budget o anche i clienti?”.