“Un’Agenda Digitale che snobba le industrie creative nazionali genera una Digital Society poco qualificante. E forse anche inquietante”. Lo dice Emilio Pucci, esperto di audiovisivo, fondatore di e-Media, società specializata in analisi di mercato e consulenza strategica nelle industrie dei media, che ha introdotto il workshop “Televisione e sviluppo digitale”: la tavola rotonda è stata promossa da TvThink (progetto di Tivù srl) e è stata, fra l’altro, occasione per la presentazione di “Complex Tv” di Jason Mittell, primo libro della nuova collana Supertele di Minimum Fax. Serve dunque un “sector deal di grande portata” e un impegno di poche centinaia di milioni per avviare una riscossa dell’industria audiovisiva nazionale attraendo capitali stranieri. Altrimenti i rischi sono altissimi: lasciare il campo libero alle grandi piattaforme Usa.
L’industria dell’audiovisivo sembra la cenerentola delle politiche per la Digital Economy europea, e nazionale. Da dove nasce questo gap?
Quando si è formato il paradigma della Digital Economy e cioè agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, questo ha assunto alcune caratteristiche concettuali considerate importanti nel suo luogo di gestazione e cioè negli Stati Uniti d’America. Il famoso programma dell’amministrazione Clinton-Gore enfatizzò e sostenne alcuni obiettivi dello sviluppo digitale quali, ad esempio, l’accesso diffuso alle infrastrutture e alle tecnologie (il digital divide e l’alfabetizzazione digitale), la rapidità e l’efficacia dei processi di aggiornamento delle reti etc. Non ci fu allora alcuna enfasi sulla forza e sulla tenuta dell’industria del contenuto semplicemente perché in Usa questa era già forte e aveva grandi prospettive di crescita e globalizzazione. Quell’approccio fu adottato dall’Europa prima nella Lisbon Strategy e poi nell’Europa 2020 ma forse l’Europa aveva bisogno di una visione diversa dello sviluppo digitale. Una visione in grado di mettere al centro la tenuta delle industrie del contenuto digitale. A mio parere le agende digitali anche di molti Stati hanno adottato un punto di vista che si è dimostrato errato perché doveva proporre un tema che il paradigma statunitense non poneva, quello della centralità dei contenuti e dunque dell’audiovisivo. Poi, gran parte dei policy maker si è letteralmente innamorata di Internet – potremmo dire in maniera incosciente – senza comprendere l’impatto che la rete poteva avere e sta avendo sull’industria del contenuto nazionale. Solo nell’ultimo anno c’è una maggiore consapevolezza e si nota una spinta alla “correzione” del paradigma digitale per come è stato concepito negli ultimi venticinque anni.
L’industria creativa europea soffre anche del fatto che è una somma di industrie nazionali…
Questo è il punto centrale. Non esiste una industria creative europea e non esiste un’industria audiovisiva europea. Questi sono solo concetti astratti. La realtà è un insieme di industrie audiovisive nazionali. Si può sempre praticare l’esercizio di calcolare il valore dei ricavi cumulati di tali industrie ma le industrie rimangono sempre nazionali, diverse l’una dall’altra e spesso di piccole dimensioni mentre il mercato tende a unificarsi. Questo è il motivo del perché le politiche a livello sovranazionale (UE) hanno poca capacità di far crescere le industrie nazionali. Dovrebbero almeno non inibirne la solidità e le prospettive. La risposta essenzialmente si trova a livello nazionale con interventi settoriali e sostegni diretti come nel caso francese o con un ruolo importante dell’audiovisivo pubblico. Penso al Regno Unito e alla Germania.
Ma nel 2030, con il maxi-switch off per il 5G, per i broadcaster sarà tutto cambiato: la partita è già persa?
I broadcaster sono di gran lunga il pilastro dell’industria audiovisiva nazionale. Considerando anche il ruolo che essi hanno sul versante della produzione e distribuzione di film non è errato dire che non esiste un’industria audiovisiva in nessun mercato europeo che non possa essere ricondotta al 90 o 95% al ruolo dei broadcaster. Mettendo in discussione la loro funzione di istituzioni dell’audiovisivo e della cultura nazionali si “scherza con il fuoco” e cioè si mette in discussione la stessa identità delle nazioni e la coesione degli individui che formano la comunità nazionale. Più questa diventa multietnica e “globalizzata” più c’è bisogno di una identità culturale forte e questa non può non essere il prodotto delle industrie della creatività fra cui quelle audiovisive. Mettere in ginocchio i broadcaster così come gli editori in genere significa lavorare alla disgregazione non solo di un settore economico – che peraltro ha un rilievo notevole in termini di occupazione – ma di una sorta di cuore-cervello del Paese. Tuttavia è chiaro che il contesto tecnologico distributivo cambia, che la rete terrestre in tendenza perde capacità e che i broadcaster storici, pubblici e privati, vivono un contesto di maggiore competitività…
Quali sono le priorità per far sì che non siano solo le piattaforme Usa a globalizzarsi?
Non c’è capacità di internazionalizzazione senza capacità di produzione di contenuti che possano circolare all’estero. La priorità assoluta è la capacità produttiva dell’industria audiovisiva. Questa deve essere creata con un impegno importante dello Stato, come nel caso francese, e con un ruolo altrettanto importante degli operatori a partire dall’operatore da quello di servizio pubblico che a mio parere dovrebbe destinare una parte importante di risorse alla produzione di contenuti che possano circolare sui mercati esteri. Ci vorrebbe un sector deal di grande portata e un impegno di poche centinaia di milioni per avviare una riscossa dell’industria audiovisiva nazionale spingendo e sostenendo i produttori indipendenti, attraendo capitali esteri. In Francia i contributi del CNC all’industria televisiva nazionale attraggono risorse notevoli dai privati. Basti pensare che il solito segmento dei documentari ha ricevuto nel 2016 più di €75 milioni di contributi. Si potrebbe cominciare da un valore pari alla metà e già si avrebbe un impatto considerevole sull’industria nazionale del documentario. Si pensi poi ad altri comparti quale quello dell’animazione, della fiction etc. Se siamo forti nell’original content la globalizzazione diventa un’opportunità. Mi pare che questo dovrebbe essere il centro di ogni Agenda Digitale che se non parte dalla forza delle industrie creative nazionali genera una Digital Society poco qualificante e forse anche, a dire il vero, inquietante.