La fine di un’epoca: il “dogmatismo tecnologico” che vedeva hardware e software separati, si sta concludendo. Adesso l’obiettivo dei big è tutelare l’esperienza d’uso degli utenti, soprattutto sui nuovi sistemi mobili, spiega Andrea Rangone, coordinatore Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano.
Quando è iniziato il fenomeno dell’integrazione tra hardware e software?
In realtà nel mondo aziendale è molto antico. È iniziato con Ibm che cinquant’anni fa produceva i mainframe ma che, un decennio alla volta, ha capito che l’hardware è una commodity e ha cominciato a integrarlo con il software e poi con i servizi. Dall’integration management fino all’outsourcing e alla consulenza. La stessa strada viene seguita alcuni decenni dopo da Hp, che acquista Compaq e si presenta come fornitore unico di software, pc, server, storage e via dicendo. Adesso è la volta di Oracle e Dell, che stanno accelerando su questa strada. È una storia abbastanza tradizionale.
Nel mondo consumer invece è successo l’opposto.
Per 40 anni si è creduto che il valore fosse nel software e che l’hardware fosse una commodity. Vinceva la specializzazione dei ruoli, con il produttore dei sistemi operativi, cioè Microsoft, che aveva più del 90% del mercato e intercettava la maggior parte del valore. Poi la frammentazione tornava nella produzione di applicativi. Un mondo dogmatico a forma di clessidra con Microsoft nel mezzo, in cui prevaleva la specializzazione della filiera e che adesso sta finendo: l’ha capito per prima Apple, che è sempre stata su queste posizioni ma che a lungo è stata un attore di nicchia e poco interessante.
Se i due mondi sono riusciti a coesistere, oggi sembra che anche Microsoft stia dirigendosi velocemente verso l’integrazione verticale tra hardware, software e servizi. Come mai?
È per via della mobility, la nuova frontiera che coinvolge sia gli smartphone sia i tablet. Sono apparecchi che hanno la complessità di un pc ma che, per essere sfruttabili in maniera soddisfacente dall’utente, devono avere una forte integrazione. I produttori devono cioè presidiare il sistema operativo, sennò rischiano di non garantire una esperienza d’uso soddisfacente.
Quali sono le conseguenze?
La prima è il superamento del paradigma del web come browser universale dei contenuti in rete. Su apparecchi con formati diversi e usabilità differenti si ha bisogno di alternative pensate appositamente per quel singolo strumento. L’obiettivo è una diffusione sempre maggiore, quindi una usabilità sempre maggiore. Il risultato è che le informazioni si visualizzano più spesso nelle app che non nel web, e per questo c’è chi ha parlato di “morte del web”.
Chi è che segue questa strategia?
Ha iniziato Apple con iPhone e poi iPad, costruendo l’integrazione tra hardware, software e fornitura dei app e contenuti. Lo ha capito benissimo Jeff Bezos, che ha trasformato Amazon da distributore di libri e negozio online in produttore di hardware e software per continuare a garantire l’esperienza per l’utente nell’acquisto e lettura di libri, visione di film, ascolto di musica. Amazon con Kindle controlla il sistema operativo Android con una interfaccia riscritta.
Qual è la chiave del successo oggi?
L’integrazione di hardware, software e servizi non è l’obiettivo ma lo strumento per raggiungere un livello più elevato di user experience. Oggi l’informatica è più facile ma anche più chiusa, con i walled garden dei diversi sistemi che non sono più universali. È la tassa da pagare, ma penso sia una fase transitoria.
INCHIESTA HARD&SOFT
Rangone: “Vince chi presidia l’Os”
Il coordinatore degli Osservatori Polimi spiega il fenomeno dell’integrazione hardware-software: “Siamo nell’era della mobility. I produttori devono presidiare il sistema operativo, altrimenti ne va della user experience”
Pubblicato il 19 Mar 2013
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