L'INDAGINE

Retail: il futuro è digital, ma gli esseri umani restano cruciali

Secondo la ricerca Digital Frontiers di VMware, resta alto il numero di persone che ha riserve su come, quando e dove viene utilizzata la tecnologia nella vendita al dettaglio: fra i punti più critici, l’utilizzo dei dati personali. Per i rivenditori la sfida è trovare il giusto equilibrio

Pubblicato il 03 Ago 2022

A woman chooses the goods online at the self-service device in hardware store

La tecnologia sta senza dubbio sostenendo il cambiamento nel retail, ma non può – non deve – sostituire il ruolo degli esseri umani. L’ultima ricerca Digital Frontiers di VMware (SCARICA QUI IL REPORT COMPLETO) lo conferma.

Se il 51% degli italiani sarebbe favorevole ad avere a disposizione dei camerini con realtà aumentata o virtuale, e il 41% pagherebbe di più per i capi di abbigliamento la cui origine è stata analizzata e approvata dalla retail technology, lo studio ha rivelato infatti che c’è anche un numero considerevole di persone che ha delle riserve su come, quando e dove viene utilizzata la tecnologia. Ad esempio, solo il 12% dei consumatori italiani desidera un’esperienza di check-out completamente autonoma e solo il 21% di loro rinuncerebbe al controllo della spesa consentendo a una tecnologia intelligente di selezionare e acquistare cibi e bevande in base a ciò che è più salutare per loro.

Tecnologia come “miglioratore” di esperienze

Secondo Matthew O’Neill, Industry managing director, Global industry solutions group, VMware, oggi i rivenditori devono assicurarsi che gli sviluppi e i cambiamenti in atto non riguardino “la tecnologia per il gusto della tecnologia”. Al contrario, la tecnologia deve migliorare l’esperienza dei consumatori piuttosto che rendere le cose più economiche o più efficienti per tutti gli altri membri della catena di approvvigionamento. La sfida per i retailer è quella di identificare esattamente ciò di cui hanno bisogno, ciò che risponderà alla loro tipologia di clienti e ciò che aggiungerà valore, attraverso tutti i canali.

“Non tutti i retailer se ne sono ancora resi conto – scrive O’Neill – , ma i dati e il modo in cui vengono utilizzati sono l’unica chiave di lettura per misurare la propria sopravvivenza a lungo termine. La loro influenza, infatti, si esercita in ogni interazione, dalle vendite al servizio, dagli sconti alle consegne fino ai resi e i rimborsi: i brand che saranno in grado di gestirli, analizzarli, comprenderli e agire di conseguenza saranno quelli che continueranno a crescere negli anni a venire. …E non abbiamo ancora visto nulla. La vendita al dettaglio è probabilmente uno dei settori più ricchi di dati. Se si considera l’intera catena di fornitura end-to-end, dalla produzione di ogni componente e materiale fino all’assemblaggio, imballaggio, distribuzione, stoccaggio, vendita, consegna, arrivando oltre il momento dell’acquisto, fino all’utilizzo e, perché no, all’abbonamento, si fa in fretta a realizzare la mole di informazioni di cui stiamo parlando. In questo scenario, stiamo già assistendo a un aumento del divario tra leader e “ritardatari” dei dati”.

“Secondo McKinsey – prosegue -, i 25 retailer più performanti – la maggior parte dei quali incarna il potente passaggio al digitale, ai dati e all’analisi – rappresentano oltre il 90% dell’aumento della capitalizzazione di mercato globale del settore durante la pandemia. E questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo Allied Market Research, le dimensioni del mercato globale dei big data analytics nel settore retail cresceranno fino a oltre 25.500 milioni di dollari entro il 2028, rispetto ai soli 4.854 milioni di dollari del 2020. E non è tutto. Se si pensa che la tecnologia sia già penetrata in modo significativo nel settore della vendita al dettaglio, non si è ancora visto nulla. Dalla supply chain all’ottimizzazione delle scorte e dei punti vendita, fino al miglioramento delle consegne e dell’assistenza ai clienti, la tecnologia viene ampiamente utilizzata per aumentare le vendite, migliorare il servizio e ridurre i costi. Con il passaggio al digitale di un numero sempre maggiore di settori e industrie, si creeranno sempre più opportunità di acquisizione dei dati e i rivenditori avranno la possibilità di migliorarsi costantemente”.

Spingersi oltre le frontiere digitali

“Eppure – continua O’Neill -, la nostra ricerca non ha evidenziato che tutto funziona esattamente così. Spesso si dice che si può accontentare nello stesso momento solo una parte delle persone, non tutte le persone, e questo è certamente vero per la tecnologia nella vendita al dettaglio. La nostra ricerca ha rilevato che un terzo dei consumatori (il 41% dei consumatori italiani) pagherebbe di più per i capi di abbigliamento la cui origine è stata analizzata e approvata dalla retail technology. Allo stesso modo, il 42% (percentuale che in Italia tocca il 51%) sarebbe favorevole ad avere a disposizione dei camerini con realtà aumentata o virtuale, in modo da poter vedere come sarebbe l’abito nella propria taglia e vestibilità senza doversi cambiare. Ogni giorno assistiamo all’ingresso sul mercato di innovazioni. Per esempio, secondo la società di analisi Rbr, l’Europa è prima al mondo per l’adozione della tecnologia senza casse (checkout-free technology), con 18.000 negozi in Europa, Medio Oriente e Africa che permettono ai clienti di scansionare gli articoli tramite il cellulare mentre fanno acquisti. Innovazioni come queste stanno rivoluzionando il modo di fare acquisti e non sarebbero state possibili fino a pochi anni fa. Ma non tutto è a senso unico. Sebbene il progresso tecnologico sia inevitabile e auspicato, si basa sulla condivisione dei dati, in particolare su chi vi ha accesso e su come vengono utilizzati, cosa che i consumatori non sono ancora del tutto pronti a fare”.

Pregiudizi sui dati: fondamentale trovare un equilibrio

“Quando si parla di dati personali, la nostra ricerca ha rivelato che solo un consumatore europeo su 10 è sicuro di come vengono utilizzati i suoi dati – continua ancora O’Neill -. In effetti, due terzi (67%) non sanno ancora chi ha accesso ai loro dati personali o come vengono utilizzati. In Italia il dato è leggermente più basso, ma si attesta sul 55%. Il 61% dei consumatori europei è sempre più preoccupato per la sicurezza della propria impronta digitale online e meno di un quarto (23%) vede i vantaggi che questa tecnologia apporta alla propria vita. Il nostro studio ha rivelato anche che c’è un numero considerevole di persone che ha delle riserve su come, quando e dove viene utilizzata la tecnologia”.

“Nonostante i progressi compiuti con la tecnologia – aggiunge -, è chiaro che i retailer stanno camminando su una linea sottile, dove il successo richiede equilibrio, lungimiranza e grande attenzione. Da un lato, sia i consumatori che i commercianti possono percepire i benefici del miglioramento del servizio, della velocità e della personalizzazione abilitati dalla tecnologia. Ma questo non può avvenire a tutti i costi. Si tratta di un delicato gioco di equilibri in cui più tecnologia viene integrata nel processo, più noi consumatori desideriamo, di contro, il contatto umano e fisico, la comprensione, l’empatia e l’attenzione che solo le persone possono dare”. Insomma: “La tecnologia sta senza dubbio sostenendo il cambiamento nel retail, ma non può e non deve  sostituire il ruolo degli esseri umani. – conclude O’Neill – Che si tratti di personale di assistenza ai clienti, di esperti competenti o di buoni commessi vecchio stile, c’è sempre posto per le persone, che permettono al settore di costruire gradualmente la fiducia dei consumatori nell’uso dei dati. Infatti, se il retail è un settore con in testa la tecnologia, è anche chiaro che i consumatori desiderano che gli esseri umani siano al centro”.

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