Rhodin, Ibm: “L’intelligenza artificiale di Watson pronta per la commercializzazione”

Il vp di Big Blue, capo del progetto, al Corriere delle Comunicazioni: “Tramite cloud e big data, raccolti anche dai social, il sistema consentirà a tutti di trovare risposte, anche da apparecchi mobili, a domande complesse. A prescindere che presti i suoi servizi a multinazionali Usa o a Pmi italiane”

Pubblicato il 05 Mag 2014

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Sfogliando i ritagli digitali dei grandi giornali americani i titoli dedicati a Watson mostrano la grande velocità con la quale Ibm sta spingendo la sua nuova tecnologia di intelligenza artificiale. Da “La nuova piattaforma dei Big Data di Ibm” di due anni fa a “Watson, il supercomptuer di Ibm che distrugge gli avversari umani a Jeopardy” dell’anno scorso fino agli ultimi “Watson si prepara a colpire il tumore al cervello” e infine “Ibm mira a portare Watson in azienda”.

Ma cos’è Watson e come è riuscita Ibm a creare in soli due anni tanto rumore attorno a una tecnologia che in realtà in molti ancora non hanno capito cosa sia? Sicuramente Watson non è un super-computer, ma allora cos’è?

Per adesso è un capolavoro di strategia di marketing e investimenti in ricerca e sviluppo della “vecchia” Ibm, che sembra tenere più che bene il passo con i nuovi avversari dell’era digitale. Un prodotto che per esempio Google si è solo sognata con i suoi Google Glass, considerati dagli esperti uno dei peggiori lanci commerciali di sempre (“Tre anni di comunicazione per vendere per sole 24 ore un prodotto non finito esteticamente non gradevole che costa 1.500 dollari, ne vale meno di 100 e fa sembrare chi lo usa un maniaco” come ha scritto Gene Marks su Forbes).

“Watson non è certamente come Siri di Apple o come Halo di Microsoft. Quelli sono sistemi di riconoscimento vocale e di risposta. Watson è molto, molto di più”, dice al Corriere delle Comunicazioni Mike Rhodin, vicepresidente di Ibm a capo del Watson Group: un investimento da un miliardo di dollari per coniugare il computing cognitivo e l’arte del possibile. Rhodin è in queste ore a Milano per un evento europeo riservato organizzato da Ibm nella sede più che centenaria del Politecnico meneghino, a cui partecipano decine di docenti e ricercatori senior di tutto il vecchio continente. Lo scopo è presentare il top della ricerca di Big Blue alle università per allettarle a collaborare: dalla mappatura simulata della mente umana sino ai chip con architettura che imita quella dei neuroni del cervello. A tenere la scena è però Watson, battezzato come le due grandi guide della Ibm del novecento: Thomas J. Watson e Thomas J. Watson Jr, padre e figlio, primo e secondo presidente di Big Blue per un arco di tempo che va dal 1914 al 1971.

Watson è un sistema di intelligenza artificiale molto complesso, un mix di differenti algoritmi e strategie per rispondere a delle domande senza sapere prima le risposte. “È una nuova architettura che apre la strada a una nuova era dell’informatica”, sostiene Rhodin, in Ibm dal 1984 quando si è laureato in informatica nel Michigan, che aggiunge che Watson “è una delle più significative innovazioni dell’azienda nei suoi cento anni di storia”. Dall’era dei sistemi programmabili all’era dei sistemi cognitivi.

Watson è figlio dei suoi tempi, che poi sono anche i nostri tempi. Cioè, da un punto di vista informatico, è figlio dei Big Data. “È un sistema capace di imparare e prendere decisioni sulla probabilità di una risposta. Analizza la montagna esponenziale di informazioni che l’umanità sta generando, per adesso quella in inglese ma stiamo decidendo quale sarà la prossima lingua. E ogni volta che legge un nuovo libro, la nuova conoscenza lo mette in crisi, gli fa venire dei dubbi che poi lo rendono più solido e capace di capire cose nuove”. Rhodin usa una retorica in cui parla di Watson come se fosse una persona, quantomeno un essere senziente. Ma quando la platea di scienziati e dei pochi giornalisti che hanno la possibilità di parlarci, emozionati per le possibilità che sistemi come Watson agitano nella mente, cominciano a fantasticare su possibili usi quasi da fantascienza, come se Watson avesse capacità “umane”, Rhodin in realtà è il primo a gettare acqua sul fuoco. Watson è diverso dai computer attuali ma è a tutti gli effetti un computer, figlio della “computer science” che si studia nelle università e anzi, pensato sulla base di algoritmi (le ricette che fanno funzionare i computer) piuttosto antiche: “Gli algoritmi chiave di Watson – dice Rhodin – erano stati pensati quando ancora andavo a scuola io. Allora non c’era la potenza di calcolo né le risorse e la base dati per metterli in atto su larga scala, oggi ci sono”. Ma questo per dire che la buona ricerca non invecchia e anzi, l’innovazione viene sia dal futuro che dal passato.

Oggi Watson è appena all’inizio del suo percorso. È stato ideato come sistema per la risposta di domande, poi è cresciuto come progetto e a un certo punto Ibm ha cominciato a investire più sistematicamente, fino a decidere di avviare la macchina del marketing capace di trasformare il lavoro dei laboratori di ricerca di New York in qualcosa capace di fare sensazione. Da qui la decisione, un paio di anni fa, di andare a giocare una partita contro utenti umani a Jeopardy, popolare gioco televisivo della tv americana come il nostro vecchio Rischiatutto di Mike Bongiorno (che proprio a quel format si ispirava). Risultato: Watson ha vinto alla grande così come alla storica vittoria a scacchi di Deep Blue contro Garry Kasparov del 1997.

“Oggi Watson è pronto alla commercializzazione”, dice Rhodin. Si è fatto le ossa su insiemi ristretti di informazioni, nel settore medico piuttosto che non in quello legale e in altri ambiti del genere. È in grado di fornire risposte a domande sull’applicazione della legge di un caso specifico, sulla possibile diagnosi di un paziente affetto da una serie di sintomi anche sulla base di analisi dettagliate. Non offre certezze ma una serie ristretta risposte plausibili con un grado di fiducia che permette all’operatore di comprendere quale tipo di soluzione possa essere più conveniente. È un sistema completamente differente che potrebbe aiutare i business di tutto il mondo, a prescindere dalle dimensioni, a costruire una relazione con la propria clientela senza i costi di un centro di CRM ma con vantaggi superiori: “Basti pensare che le risposte di un call center sono corrette nel 15-40% dei casi, mentre Watson è corretto più dell’80% delle volte”, dice Rhodin.

Il modello di business che Ibm ha pensato per Watson, per adesso limitato alla lingua inglese, è semplice: Watson risiede nel cloud e viene costantemente aggiornato e migliorato. Acquisisce competenze su singoli domini di conoscenza e può essere utilizzato dalle aziende direttamente o tramite un futuro marketplace di prodotti realizzati dall’ecosistema dei partner e degli sviluppatori di Ibm. “Siamo in realtà solo agli inizi di una rivoluzione che durerà decenni”, dice Rhodin. Che aggiunge: “La cosa importante è pensare ai vantaggi del fatto che gli uomini possano collaborare con le macchine e far venire fuori cose che altrimenti nessuno dei due, né uomini né macchine da soli, sarebbero stati in grado”. Le aziende usano Watson e pagano per quanto usano, oppure se sviluppano app che lo utilizzano Ibm partecipa ai guadagni con il modello di un app store.

In futuro, arriveranno altre lingue. E qui ci saranno dei cambiamenti, perché gli Watson che parlano lingue diverse svilupperanno capacità differenti, a seconda della lingua stessa e del corpus di informazioni che potranno raggiungere. Si vedrà allora se sarà più intelligente lo Watson che parla inglese o quello francese, tedesco, italiano o cinese. “Ma ci vorranno ancora un po’ di anni, per fortuna”, dice Rhodin, che ha vissuto un paio di anni in Svizzera quando era responsabile dell’area di Ibm Northeast Europe e ha conosciuto i particolarismi e i campanilismi che abitano il Vecchio continente. “La cosa importante – conclude Rhodin – è che Watson sarà uno strumento per livellare il campo della competizione, perché tramite il cloud e i big data, raccolti anche dai social, consentirà a tutti di trovare risposte, anche da apparecchi mobili, a domande complesse, a prescindere che presti i suoi servizi ad aziende grandi come le multinazionali americane o piccole come le PMI italiane”.

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