Quasi 12 milioni di lavoratori italiani saranno sostituiti da algoritmi nei prossimi vent’anni: la transizione verso quella che viene definita “la seconda era della macchine” potrebbe far perdere il posto di lavoro alla metà degli occupati nel nostro Paese. Il dato emerge da una dettagliata analisi di Car Frey e Michael Osborne, ricercatori di Oxford, impegnati in uno studio sull’impatto delle tecnologie sul mondo del lavoro.
Secondo i ricercatori saranno circa 700 le occupazioni che saranno svolte dai computer. “La probabilità di automazione è determinata dal contenuto routinario di ogni occupazione – spiegano i due – ovvero da quanta parte di un lavoro consiste nel ripetere procedure iperdefinite che possono essere facilmente realizzate da macchine guidate da algoritmi”.
In questo scenario si mette in moto una vera e propria gara tra macchine e persone: serve capire in cosa gli umani siano davvero insostituibili e definire politiche del lavoro e della formazione che aprano una nuova stagione di occupazione ad alto contenuto innovativo.
Una gara che, però, l’Italia potrebbe perdere dato che – stando a una ricerca di Empirica – nel 2020 saranno 176mila le figure ad alta competenza tecnologica, non solo nel settore Ict, che rischiano di rimanere scoperte per mancanza di politiche adeguate per il mercato del lavoro e di investimenti mirati da parte delle aziende.
“La posizione nettamente periferica dell’Italia in gran parte dei settori nuovi non fa ben sperare per il futuro economico del Paese – spiega Enrico Moretti, docente di Economia politica a Berkeley e autore del libro “La nuova geografia del lavoro” -. Uno dei problemi di fondo è che da sempre le imprese italiane investono poco in ricerca e sviluppo, e questo le rende deboli oggi e ancora di più in prospettiva futura. Questa scarsa propensione all’innovazione rappresenta un costo per il Paese in termini di mancati posti di lavoro altamente qualificati”.
L’Italia ha, a livello europeo, uno dei più bassi tassi di occupazione. Ciononostante, ha proporzionalmente anche il più alto numero di posizioni aperte nel settore tecnologico e che non riescono a trovare candidati idonei. Con una disoccupazione giovanile che nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni sfiora il 40%, si capisce bene quale possa essere il bisogno di competenze digitali.
Un report Modis mette in risalto che nel 2013 c’erano 15mila posti di lavoro liberi nel settore hi-tech in Italia e si prevede che il prossimo anno arriveremo a 19mila. Nonostante la generale mancanza di opportunità professionali, 3mila di queste posizioni sono rimaste scoperte. E si prevede che il prossimo anno saranno almeno 4mila. Oltre la metà di queste posizioni erano per un impiego full time, un terzo part time e il 13% per l’apprendistato.
Il caso italiano è esemplare, ma a livello europeo la situazione non è molto diversa. Il divario tra il numero di posti di lavoro offerti e il numero di persone con le giuste competenze digitali cresce del 3% ogni anno. Secondo le stime di Bruxelles passerà dai 275mila posti di lavoro offerti nel 2012 a mezzo milione l’anno prossimo e 900mila entro il 2020.
“Il vero punto debole dell’Italia è la formazione – sottolinea Moretti -. Perché è poco efficace ed in mano a miriadi di piccole imprese che ricevono fondi europei, ma esistono pochi studi sui risultati reali. Negli Stati Uniti, invece, è obbligatorio avere delle ricerche sull’impatto reale della formazione sulle chance di ritrovare un lavoro”.
Il governo italiano sembra aver capito l’importanza di investire sulla formazione e ha messo in campo l’artiglieria pesante per vincere la sfida Paese degli e-skills. A cominciare dalla scuola. Il progetto “La buona scuola” verte su due pilastri: la connessione in banda larga per tutti gli istituti e le ore di programmazione (coding) inserite nei programmi didattici.
“Si tratta – fanno sapere dal Miur a Cor.Com – di una scelta mirata a preparare giovani talenti in grado di soddisfare i bisogni delle imprese e dunque di attivare quel circuito virtuoso tra formazione e lavoro che in Italia non sempre si è manifestato in tutte le sue potenzialità, soprattutto nei settori digitali che più di altri hanno pagato lo scollamento tra scuola e aziende”. Altro asset della politica del governo il Jobs Act che introduce l’Agenzia unica per il Lavoro, strumento per far incontrare domanda e offerta di lavoro qualificata e razionalizzare la formazione regionale.
L’Agenzia, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome vigilata dal ministero del Lavoro unificherà l’erogazione dei servizi per l’impiego con quella degli ammortizzatori sociali. Il modello che si ispira al meccanismo di One stop shop presente nei Jobcentre plus inglesi, si realizzerà attraverso processi di raccordo tra l’Agenzia e l’Inps (nel dettaglio il dipartimento dell’istituto che si occupa di politiche sociali, Aspi e Mini-Aspi), mentre per sviluppare al meglio servizi alle imprese, in particolare l’assistenza all’auto-impiego, prevede l’accorpamento dentro alla nuova agenzia di tutti quegli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimprenditorialità (tra cui le Camere di Commercio).
Basteranno queste azioni per rilanciare l’occupazione ad alto contenuto tecnologico? Secondo Moretti il governo ha iniziato bene, anche se vanno fatti velocemente passi ulteriori.
“Serve una strategia di investimenti nel capitale umano. Una politica dell’innovazione. E un nuovo approccio alle disparità regionali – spiega l’economista -. Sul primo punto: l’Italia ha un deficit di laureati nelle discipline più produttive, quelle che nel resto del mondo coincidono con i settori trainanti dell’occupazione. Sull’innovazione bisogna spingere le imprese italiane perché abbiamo un’industria troppo concentrata su settori vecchi. I divari regionali: qui negli Usa gli Stati del Sud hanno avuto un recupero di sviluppo e di occupazione puntando sulla competitività dei salari più bassi. Bisogna ripensare l’Italia come tanti mercati del lavoro regionali”.