Emergenza rifiuti spaziali. Mentre accelera il nuovo mercato dei satelliti artificiali connessi, che permetteranno di espandere le funzionalità e la connettività di Internet a tutto il pianeta, gli esperti mettono in guardia: attenzione ai rifiuti spaziali, la cosiddetta “spazzatura orbitale“. Perché potrebbero costituire un pericolo sia per le missioni con equipaggi che per i satelliti lanciati per andare in orbita.
Nella nuova corsa allo spazio ci sono dentro tutti, da SpaceX di Elon Musk alla startup OneWeb. E tutti cercano di creare una rete di satelliti in orbita bassa che offrano sostanzialmente servizi di connettività capillari e a basso costo su tutta la superficie del pianeta. Con un problema: evitare i danni che la crescente massa di detriti che fluttuano nello spazio. Questi oggetti, rimasugli di passate missioni e di satelliti “scaduti”, potrebbero interferire con le future missioni spaziali e il lancio stesso dei nuovi satelliti, e persino diventare un pericolo per la superficie terrestre, precipitando senza consumarsi del tutto durante il rientro.
Dalla fine degli anni Cinquanta ci sono stati più di cinquemila lanci nello spazio, secondo quanto calcolato dall’Agenzia spaziale europea (Esa), per un totale di circa 9mila satelliti messi in orbita. Di questi, cinquemila sono ancora nello spazio ma solo duemila sono ancora funzionanti.
Se abbandonati questi satelliti o addirittura parti dei razzi dei lanciatori, diventano spazzatura spaziale che continua a orbitare per decenni.
E, secondo gli esperti, la situazione peggiore perché non sempre i lanci vanno come sembra. Ad esempio, dopo la partenza dei lanciatori che devono mettere in orbita i satelliti, il vettore principale si stacca e deve rientrare a terra. Ma in alcuni casi esplode e vari frammenti di dimensioni variabili rimangono in orbita.
Nel 2009 ad esempio due satelliti sono entrati in collisione l’uno con l’altro, creando più di 2.300 frammenti che possono essere tracciati, secondo quanto riporta l’Esa.
Un altro problema non secondario e quello dei paesi che lanciano missili anti-satellite per testarne la capacità. Ad esempio, nel 2007 la Cina ha fatto scoppiare uno di questi missili, facendo aumentare in un colpo solo del 25% il numero di detriti che vengono tracciati dall’Esa. E nel 2009 è accaduta la stessa cosa per via di un lancio e relativa esplosione provocata da un missile indiano.
La conseguenza di questa situazione è che può generare un continuo peggioramento: i frammenti possono colpire i satelliti in orbita distruggendoli e aumentando il numero di detriti orbitali.
Per capirlo, secondo Jan Worner, direttore generale dell’Esa, “bisogna immaginare quanto sarebbe pericoloso navigare in alto mare se tutte le navi che sono affondate dall’inizio della storia stessero ancora galleggiando sulla superficie del mare”.
Lo spazio, sostengono gli esperti, è un ambiente molto delicato e deve essere trattato come tale. La teoria del “grande spazio”, che cioè si tratta di un ambiente abbastanza grande da non doversi preoccupare se rimangono dei rifiuti in orbita, oggi non è più vera.
Quel che si può fare adesso, sostiene Esa, è vedere se è possibile rimuovere parte dei rifiuti che sono in orbita. L’agenzia ha incaricato una azienda svizzera, ClearSpace, capofila di un consorzio di startup, di immaginare modi e tecnologie per rimuovere i detriti spaziali dall’orbita.
Ci sono già i progetti ed è prevista una prima missione nel 2025. Intanto, anche l’agenzia per l’esplorazione aerospaziale giapponese, Jaxa, ha annunciato di avere in cantiere una missione con un obiettivo analogo prevista per il 2022.
Inoltre, sono sempre più stringenti le richieste da parte delle agenzie e degli esperti per fare in modo che le prossime spedizioni orbitali vengano eseguite in maniera tale da non aumentare e anzi far diminuire la creazione di rifiuti spaziali.