Tra scuola e software libero c’è sicuramente, detta alla Facebook, una relazione complicata. Diversi, solidi e d’esempio i matrimoni che hanno dato vita anche a preziose comunità di pratica, ma probabilmente più frequenti le scuole single, quelle che scelgono soluzioni proprietarie magari diverse da scuola a scuola, tanto per non condividere ciò che di buono si riesce a sperimentare.
La domanda di molti è: perché il software libero a scuola? E la risposta qualcuno la vorrebbe trovare in un comma di un decreto impolverato piuttosto che in un frullato di occasioni ed etica dove invece si dovrebbe cercare.
Considerata la scuola come una PA, anche per questa ci sarebbe il rispetto dell’art. 68 del CAD (davvero impolverato vista l’età) che impone la scelta di programmi open source a parità di qualità. Ma se si comincia a parlare della norma ci sarà sempre qualcuno pronto a interpretarla e a dire che per la propria scuola quella mezza riga di legge non vale. O ci sarà qualcun altro che imbastirà rapporti ricchi di stime e numeri tirati fuori dal cappello a seconda della convenienza che mostreranno un maggior risparmio per una soluzione piuttosto che per un’altra.
E se questo si può fare (si può fare?) in PA, a scuola no. Perché la scuola è un luogo sacro, dove si formano le nuove generazioni e dove non dovrebbe entrare la prima cosa che capita “tanto perché è gratis” (non libera attenzione, ma gratis), o “perché ce l’hanno tutti” o “perché le insegnanti conoscono già questo software e si rifiutano di impararne uno nuovo”. La scuola ha il dovere di crescere persone libere di essere libere, consapevoli degli strumenti tecnologici a disposizione, senza paraocchi. Persone che da grandi non siano costrette a chiamare Excel il foglio di calcolo solo perché hanno conosciuto un unico programma in vita loro che gestisce formule. Persone che non siano resistenti al cambiamento (soprattutto di un semplice strumento) perché sarebbero resistenti all’innovazione in qualunque settore. Persone che dovrebbero privilegiare la collaborazione e la condivisione all’individualismo.
Persone che sanno fare squadra magari riscoprendo quella dose di creatività che il software libero sicuramente stimola. Persone migliori di quelle di una generazione fa, che si sono lasciate affascinare dalla semplicità d’uso di soluzioni proprietarie e che, un po’ come chi consuma piatti pronti, hanno abbandonato il gusto di sperimentare. In tutto questo non sono certo un faro da seguire gli accordi del MIUR (anche sottoscritti di recente) con multinazionali pronte a erogare formazione gratuita a docenti sui propri prodotti. Non sono un buon esempio i tanti CD multimediali allegati ai libri di testo che richiedono obbligatoriamente un certo sistema operativo o un certo programma proprietario per poter essere letti (non solo a scuola quindi ma anche a casa).
Non sono certo una stella polare che indica il cammino le tante università (tutte non si potrebbero linkare) che “regalano” Office365 agli studenti costringendoli a utilizzare uno spazio in cloud spesso in modo inconsapevole. E allora, per togliere ogni dubbio a riguardo, è importante ribadire che il software libero non è gratis ma libero di essere usato, studiato, migliorato, condiviso. Non qualcosa che qualcuno ha deciso di regalare ma un progetto al quale più persone contribuiscono (anche gratuitamente da volontarie) e che la collettività può usare liberamente. Quale miglior messaggio da portare sui banchi di scuola?